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Eligibles, quarta settimana: affari, storie e curiosità dalla free agency

Il draft si avvicina a grandi passi e francamente, il tempo che ci separa dalla fatidica prima chiamata è sempre e comunque troppo: l’incredibile quantità di talento disponibile sembra essere destinata a cambiare drasticamente gli equilibri della lega e soprattutto ci darà mesi di argomenti “freschi” sui quali costruire decine e decine di articoli.
Al momento, le notizie più interessanti riguardano rinnovi contrattuali e, purtroppo, analisi introspettive su Aaron Rodgers ed il suo ego: immagino siate al corrente dell’interessante articolo pubblicato da Bleacher Report nel quale ci viene offerto un dettagliato ed avvilente resoconto sulla situazione Packers e sui vari giochi di potere che hanno limitato quello che per molti è il miglior quarterback di sempre ad un solo Lombardi.

1) La verità delude

Immagino siate al corrente dell’ammirazione che nutro nei confronti di Aaron Rodgers, con ogni probabilità il mio giocatore preferito: uno sconvolgente -ma nemmeno troppo- e dettagliato report di Tyler Dunne, penna del sempre ottimo Bleacher Report, ci ha dipinto un quadro piuttosto inquietante sulla situazione Packers, incentrando la sua analisi sull’ego di Rodgers e del suo ex-allenatore Mike McCarthy.
Quanto leggerete non è bello, soprattutto se avete passato l’ultimo decennio ad ammirare il numero 12 e le sue imprese: Dunne ci mette davanti ad un uomo il cui ego lo ha portato/sta portando a tagliare i ponti con ex-compagni, famiglia e più in generale con chiunque osi mettere in dubbio la sua autorità-barra-intelligenza. Non che McCarthy -allenatore spinto da vari eventi ad un passivo “disinteresse” ed in cerca di costanti attenzioni/gratificazioni- ne sia uscito tanto meglio, ma se non altro essendo disoccupato non avrà puntati contro i riflettori durante tutta la prossima stagione: il povero LaFleur non sembra trovarsi in una posizione facile e se Rodgers non cambierà atteggiamento al più presto c’è il serio rischio che Green Bay sia destinata ad implodere ancora una volta.
Prendetevi una mezz’ora e leggete, ne varrà la pena, in quanto ogni singola parola in cui vi imbatterete altro non è che la sapiente rielaborazione di testimonianze di ex-compagni e membri dello staff: lo ammetto, sono ancora in fase di rifiuto.

2) Missione compiuta

DeMarcus Lawrence ce l’ha fatta: dopo mesi di lunghe e dolorose contrattazioni, il forte defensive end dei Cowboys ha ottenuto il tanto desiderato rinnovo contrattuale, un quinquennale da 105 milioni di dollari di cui ben 65 garantiti.
Il vero capolavoro di Lawrence, però, è stato quello di riuscire a firmare un contratto nel quale nel solo 2019 percepirà più di 31 milioni di dollari -seconda cifra più alta dietro solamente agli astronomici 44 milioni di Matt Ryan-: Dallas ha il talento per ambire al Lombardi e mettere sotto chiave il proprio talento è la cosa più sensata per costruire una vera e propria contender e garantirsi i servigi di un difensore in grado di stravolgere i piani offensivi della squadra avversaria è sicuramente una mossa vincente. Ora sotto con i rinnovi di Dak e Zeke, anche se per quanto riguarda il numero quattro temo -per gli equilibri del roster, non per il giocatore che fino ad oggi ha giocato praticamente “gratis”- che la cifra pattuita sia destinata ad essere difficilmente giustificabile: buon per lui!

3) New Swag Jets

I New York Jets ci credono: dopo aver trovato in Darnold il quarterback del futuro ed aver investito su free agent del calibro di Bell e Mosley, New York ha presentato in pompa magna le nuove divise che, a mio avviso, entrano immediatamente nella top-five della categoria.
Giudicate voi.

https://www.instagram.com/p/Bv2lXAGg6W1/

4) Pretese più che motivate

Russell Wilson nel 2019 è destinato ad essere il dodicesimo quarterback più pagato della lega, con davanti a lui gente come Garoppolo, Mariota, Winston, Flacco, Carr e Foles: siamo davanti ad un’eresia che deve essere corretta il più velocemente possibile, ed i Seahawks sono i primi a saperlo.
A dire il vero ora pure tutto il resto del mondo lo sa, in quanto Russ ha lanciato al proprio front office un ultimatum che scadrà il 15 aprile: Wilson vuole -e ne ha tutto il diritto- essere il quarterback più pagato di sempre e, sebbene qualcuno possa storcere il naso, è utile ricordare che oramai il trend è il seguente, ovvero che ogni rinnovo firmato da un franchise quarterback lo rende -per relativamente poco tempo- il giocatore più pagato della lega, se non della storia.
Con Wilson under center Seattle avrà sempre la mai banale opportunità di giocarsela alla pari -circa- contro chiunque, pertanto non esaudire i suoi desideri non avrebbe alcun senso, soprattutto per una squadra che nelle ultime offseason ha totalmente mutato il proprio DNA ed ha trovato nel numero 3 una magnifica e produttiva costante: rendetelo felice, suvvia.

5) Nuove opportunità

La AAF è miseramente fallita e la NFL non ha perso tempo ad offrire un’opportunità a coloro che si sono distinti durante la sua fugace esistenza: Keith Reaser, ex cornerback degli Orlando Apollos, è stato immediatamente messo sotto contratto dai Kansas City Chiefs, squadra che in secondaria ha immediatamente bisogno di quanto più aiuto possibile.
Al momento già una decina di giocatori ha messo nero su bianco il nuovo capitolo della propria avventura e non mi resta che augurare a tutti loro buona fortuna: ricordate sempre la storia di Kurt Warner.
Mi sembra il caso di condividere con voi le goffe scuse dei piani alti della defunta Alliance, che attraverso un tweet ha chiesto perdono a chiunque sia stato coinvolto in tale fallimento.

6) E Rosen intanto…

…intanto si è presentato all’apertura degli OTAs dei Cardinals: nulla di strano, direte, ma vi invito a prestare attenzione al fatto che normalmente un giocatore “coinvolto in voci di trade” non si presenta quasi mai a tale evento.
“Coinvolto in voci di trade”? Non proprio, in quanto apparentemente i Cardinals finora non hanno imbastito alcuna trattativa per sbarazzarsi della decima scelta assoluta dello scorso draft: molti vedono il matrimonio con Kyler Murray come mera formalità, ma per il momento vale la pena ricordare che gli Arizona Cardinals il proprio quarterback del futuro già lo hanno, e per l’appunto si chiama Josh Rosen. Nella NFL moderna le certezze sono merce rara, ed occorre tenere in considerazione l’ipotesi che tutto questo interesse nei confronti di Murray possa essere un tentativo di spingere qualche squadra disperata a fare follie per garantirsi la prima scelta assoluta.

7) Ora basta

L’ho adorato -nonostante la squadra in cui militava non fosse esattamente la mia preferita- per la sua incredibile produzione in campo e per la quasi fiabesca etica del lavoro, ma adesso Antonio Brown è andato veramente oltre ogni limite: capisco gli attacchi a Roethlisberger, capisco un po’ meno quelli a Tomlin e non capisco minimamente gli attacchi a JuJu, nuova vittima prediletta degli improvvisi attacchi di rabbia del nuovo numero 84 di Oakland.
Guardate questa incredibile serie di tweet, nella quale -come sempre ultimamente- dal nulla Brown ha attaccato l’ex compagno di reparto.

La legittima risposta di JuJu non si è fatta attendere

Antonio, perché stai facendo l’impossibile per essere odiato anche dal tuo più fedele sostenitore? Esclusivamente per questo caso mi rifarò alla più spregevole delle locuzioni usabili nel mondo sportivo: shut up and dribble.

8) Non tutto è da buttare

Le’Veon Bell è stato a lungo oggetto di critiche e dibattiti e molto probabilmente il suo nome verrà tirato in ballo ogni qualvolta un giocatore minaccerà lo “sciopero” di fronte ad un impasse sul rinnovo contrattuale: ciò non è chiaramente il più onorevole dei riconoscimenti, però ora grazie ad un tweet possiamo toglierlo a priori dalla categoria “cattivi compagni”.
Di cosa sto parlando? Di questo tweet nel quale vediamo uno screenshot della chat con James Conner, il suo sostituto agli Steelers.

Nient’altro da aggiungere: Antonio Brown, per favore prendi nota.

9) Un rinnovo scontato ma non troppo

Le squadre vincenti devono poter contare su un kicker perlomeno affidabile -immagino che i tifosi dei Bears abbiano qualcosa da dire a riguardo- ed i Patriots, la squadra Vincente con la “v” maiuscola, lo sanno: non mi sorprende dunque il rinnovo contrattuale dato a Stephen Gostkowski, kicker che per i prossimi due anni tenterà, piazzato dopo piazzato, di aiutare i Patriots a raggiungere altri Super Bowl. Sorprende, però, il fatto che New England abbia aspettato così tanto a mettere il tutto nero su bianco, poiché ad onor del vero negli ultimi tre anni Gostkowski ha concluso la regular season con una percentuale di realizzazione inferiore all’85% in ben due occasioni, mancando qualche extra point cruciale qua e là: senza un suo errore forse New England avrebbe avuto l’opportunità di rappresentare l’AFC al cinquantesimo Super Bowl, giocato e vinto dai Denver Broncos di Peyton Manning.

10) Nuggets!

I Philadelphia Eagles sono forse la squadra più interessata in assoluto ai talenti AAF: Philly ha infatti messo sotto contratto ben due ricevitori -l’ex Vikings Charles Johnson e Greg Ward- e l’intrigante quarterback Luis Perez. Pure gli ignavi Dolphins stanno banchettando sulla carcassa della fu Alliance of American Football e fra le molte firme spicca sicuramente quella dell’ex Packers Jayrone Elliott, pass rusher che ha messo a segno ben 7.5 sacks nella fugace esistenza della lega. Buonissima mossa dei Seahawks che si sono garantiti per il prossimo anno il defensive end Nate Orchard, ex Browns nonché stella della scorsa edizione di Hard Knocks; attenzione ai Patriots, che alla ricerca del successore -di nome- di Rob Gronkowski hanno firmato il talentuoso ma problematico Austin Seferian-Jenkins: classica mossa Patriots, pertanto potrebbe seriamente funzionare!

 

 

 

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Caro Dirk ti scrivo

Vi avviso: questo non è un normale articolo come quelli che siete abituati a leggere su queste pagine (o su altre). Non può esserlo, perché il giocatore a cui è dedicato non è soltanto un ex MVP di regular season e di finale NBA, il sesto realizzatore di ogni epoca e un pluridecorato campione con un busto nella Hall of Fame di Springfield già pronto per essere esposto. Oltre a tutto questo, Dirk Nowitzki è il motivo per cui oggi, con oltre 40 primavere già nello specchietto retrovisore, il basket NBA è saldamente la mia prima passione sportiva (con la seconda che arriva terza) e il mio cuore di tifoso sanguina letteralmente per i colori dei Dallas Mavericks.

Ho scoperto Nowitzki quasi per caso, quando reso cestisticamente orfano dal secondo abbandono di Michael Jordan ero alla ricerca di un nuovo giocatore per il quale fare il tifo. Durante quella offseason del 1998, la franchigia di Dallas dell’allora proprietario Ross Perot Jr. e guidata in panchina dallo scienziato pazzo Don Nelson decise di fare due cose decisamente controcorrente: sacrificare la sua scelta numero 6 a nome Robert “Tractor” Traylor (pace all’anima sua) per scambiarla con un semisconosciuto lungo proveniente dall’A2 tedesca e andare a prendere da Phoenix un play canadese con un fisico da impiegato del catasto che nei suoi primi due anni nella Lega aveva fatto solo della gran panchina.

Ecco, non ho memoria precisa dello scambio di scelte con Milwakee o della trade con Phoenix, ma ricordo molto bene la prima volta che ho letto i nomi di Dirk Nowitzki e Steve Nash. È stato subito dopo aver visto questa foto.

L’amore spesso non ha un motivo logico, perlomeno non se parliamo di quello a prima vista. Ecco, nel momento in cui ho visto quel sorriso imbarazzato, quell’orecchino al lobo sinistro e quella orrenda pettinatura bionda, per qualche inspiegabile motivo ho sentito scattare dentro di me una scintilla. Da quel momento in poi, per lui e per quell’altro strano ragazzo ossigenato sulla destra avrei sposato la causa dei semi-derelitti Dallas Mavericks, una squadra reduce da un record di 20 vittorie e 62 sconfitte nell’annata precedente e senza una stagione vincente da otto anni. Se non è amore questo…

Ed è così che, a oltre vent’anni da quello storico draft, mi trovo oggi di fronte all’ultima partita di questo semidio teutonico con il numero 41. Questo pezzo è quindi dedicato a lui e contiene una serie di immaginarie lettere che, nel mio cuore di tifoso, vorrei avergli spedito durante il corso della sua straordinaria carriera. Chissà che un giorno non trovi il modo di fargliele arrivare per davvero…

 

Giovedì 15 Aprile 1999

Caro Dirk.

È stata una stagione difficile, lo so. Prima il lockout, che stava quasi per farti cambiare idea sul trasferimento nella NBA ancor prima di cominciare, ma per fortuna Nelson e Perot sono volati fino a Würzburg per dimostrarti quanto si forte la fiducia che la società ripone in te, forse ancor più di quella che tu stesso credi di meritare. Poi gli avversari americani, che sembra quasi stiano facendo il possibile per farti fare brutta figura, quasi volessero dimostrare a tutti che un europeo non potrà mai venire ad insegnare loro come si gioca a basket.

Anche i giornalisti USA non sono stati particolarmente teneri, ti hanno soprannominato “Irk” Nowitzki perchè dicono che la D di Difesa tu non sappia nemmeno come scriverla. Non farci caso, sono sicuro che presto riuscirai a far cambiare idea a tutti. Forse sei un po’ frastornato dai ritmi e la fisicità che caratterizzano questa Lega, ma hai comunque già fatto vedere diverse cose interessanti e mi pare che con quell’altro biondino canadese tu stia sviluppando un buon rapporto. Si vede da come vi guardate in campo, sono certo che avere un amico in squadra potrà aiutarti nelle giornate più difficili. Tieni duro, perché la tua avventura è appena cominciata.

 

Venerdì 11 Maggio 2001

Caro Dirk.

Le cose iniziano a cambiare, no? Quasi 22 punti e oltre 9 rimbalzi di media… dove sono adesso gli espertoni che ti bollavano come “pacco” solo dopo qualche mese? Ora già cominciano a dire che non si era mai visto un giocatore così alto tirare così bene, che sei un potenziale uomo franchigia, etc… Vabbè, lasciamo da parte le polemiche: sono arrivati i primi playoff della tua carriera e hai subito conquistato uno scalpo eccellente.

Gli Utah Jazz di Stockton e Malone solo pochi anni fa facevano sudare sette camicie ai Chicago Bulls di His Airness Michael Jordan, ma li abbiamo (scusa il plurale ma ormai mi sento parte integrante del team ) mandati a casa senza troppi complimenti. Ok, dopo è arrivata la sconfitta contro gli Spurs (mi stanno un po’ sulle palle questi, speriamo di non doverli incontrare mai più) ma di certo i nuovi Mavs stanno cominciando a far paura a molti. Ormai tu, Nash e Finley siete ufficialmente i nuovi Big Three, manca ancora qualche pezzo e poi potremo puntare davvero al bersaglio grosso.

Ah, a quanto pare abbiamo anche un nuovo proprietario. Questo Mark Cuban sembra un tipo simpatico, di certo non è il classico owner ingessato e poi cavolo, sembra che ci tenga davvero. In panchina pare un tifoso invasato, speriamo voglia aprire i cordoni della borsa e sfruttare al massimo il gruppo che si è creato in questi anni. Non so tu ma io ho sensazioni davvero positive riguardo al futuro.

 

Lunedì 16 Maggio 2005

Caro Dirk.

Ho continuato a temporeggiare sperando di poterti scrivere per festeggiare il tuo primo anello di campione NBA e invece… Prima ci si sono messi i Sacramento Kings, che nel 2002 ci hanno buttato fuori prima di suicidarsi in Gara 7 della finale dell’Ovest contro i Lakers. Poi nel 2003, quando dopo aver rischiato di subire una clamorosa rimonta avanti 3-0 al primo turno contro i Blazers ed esserci vendicati sui Kings in Gara 7 di semifinale, un maledetto scontro fortuito con Ginobili in Gara 3 ti ha costretto ad abbandonare anzitempo le finali di conference, lasciando di nuovo il campo libero a quegli insopportabili “cugini” di San Antonio. Quella è stata veramente una sfortuna, sono sicuro che con te in campo gli Spurs non avrebbero avuto speranza. Nel 2004 a rompere le… uova nel paniere sono stati ancora i Kings, che a quanto pare si esaltano quando vedono le maglie dei Mavericks ma poi finiscono sempre per fallire sul più bello (sempre in gara 7, stavolta contro Minnesota).

E infine quest’anno, il 2005. Ecco, questa credo sia stata per te la sconfitta più difficile da digerire. La partenza del tuo grande amico Steve Nash nell’estate scorsa ha lasciato sicuramente un grande vuoto, nel tuo cuore come in quello di tutti i tifosi di Dallas (compreso il mio). Vederlo andare a Phoenix è stata dura, dover ingoiare la sconfitta proprio contro i Suns all’overtime di Gara 6 delle semifinali di conference lo è stato ancora di più. Certo, dal punto di vista individuale in questi quattro anni sei andato veramente alla grande, all’All Star Game hai sempre una maglia che ti aspetta con il tuo nome dietro e sei ormai riconosciuto come uno dei più forti giocatori dell’intera Lega. Ma so che a te non interessano più di tanto i riconoscimenti individuali: tu vuoi vincere, vuoi portare i Mavericks al primo titolo della loro storia. Abbi fede e ce la faremo, è solo questione di tempo.

 

Sabato 28 Aprile 2007

Caro Dirk.

Ti chiedo scusa. Non ho avuto abbastanza cuore per scriverti dopo la sconfitta nelle NBA Finals del 2006, quando a pochi metri dalla terra promessa Wade, Shaq e Riley (e gli arbitri) ci hanno strappato di mano quel trofeo che sembrava così vicino. Per notti intere non sono riuscito a dormire, frustrato da quelle quattro sconfitte consecutive il cui ricordo è ancora così duro da sopportare per me, figuriamoci per te.

Lo faccio però adesso, quando è ancora fresca la delusione per l’incredibile upset subito al primo turno da quella banda di pazzi dei Golden State Warriors di Baron Davis, Stephen Jackson e del nostro ex coach Don Nelson. E chissenefrega del titolo nel Three Point Contest all’All Star Game, della Gara 7 di semifinale vinta finalmente contro gli odiati Spurs, dei 50 punti in Gara 5 della finale di conference contro Phoenix, del record di franchigia di 67 vittorie, del primo quintetto NBA e persino del titolo di MVP della Lega. Nessuno di questi traguardi credo che al momento ti interessi granché, perché avrai in mente soltanto le cocenti delusioni subite ai playoff in questi due anni. Ecco, oggi ti scrivo per dirti soltanto una cosa: NON MOLLARE!

Non lasciarti prendere dallo sconforto, perché per quanto possa bruciare questa eliminazione non è la fine. Prenditi un po’ di tempo per staccare dalla pallacanestro, magari fai un viaggio (ho un amico che è stato per un mese in giro zaino in spalla in Australia ed è tornato completamente rigenerato, potrebbe essere un’idea) e per qualche settimana cerca di non pensare al basket. Ma quando tornerai, devi gettarti tutto alle spalle e ricominciare a lottare. Nash se n’è andato (anche lui ha vinto un titolo di MVP della Lega ma aspetta ancora il suo primo anello), Finley pure, resti solo tu a guidare questo gruppo e quindi hai la responsabilità di rialzarti per primo e riprendere a tirare nella direzione giusta. Noi ti aspettiamo: torna e sii il leader e il vincente che dentro di te sai di poter essere.

P.S. Tanto per essere chiari: ODIO AVERY JOHNSON!!! È un insopportabile incapace e se lo incontrassi per strada lo metterei sotto con la macchina. Spero solo che Cuban lo cacci subito a pedate e che prenda un allenatore come si deve prima che sia troppo tardi.

 

Lunedì 13 Giugno 2011

Caro Dirk.

Non ho parole. Seriamente, sono passati diversi minuti dal suono della sirena finale di Gara 6 delle NBA Finals a Miami e ancora non riesco ad emettere alcun suono, la gola bloccata da tutte le emozioni vissute in questi ultimi quindici giorni. Ma ti voglio scrivere subito, prima che questo turbinio si attenui per trasformarsi nel sorriso ebete che so mi accompagnerà da qui alle prossime settimane.

Quello che avete fatto in queste Finali è stato eccezionale. La straordinaria rimonta in gara 2, sotto di 15 punti a poco più di 7 minuti dal temine, quella in Gara 4 con i tuoi canestri decisivi nel quarto quarto nonostante la febbre a 38, l’esplosione di Terry in Gara 5 e le sue triple in faccia a LeBron, il super primo tempo dei tuoi compagni in Gara 6 e il tuo sigillo nel finale.

Hornets, Nuggets e Spurs: negli anni precedenti queste tre squadre hanno nuovamente spento sul nascere i nostri sogni di gloria, ma soltanto perché non eravamo ancora pronti, perché i pezzi del puzzle non erano ancora tutti perfettamente al loro posto. Blazers, Lakers, Thunder e Heat (che fantastica vendetta sportiva!) sono stati invece le tappe del percorso che ci hanno condotto finalmente al tanto sospirato anello, il primo per te, per la franchigia, per tutti.

Jason Terry (lui e il suo tatuaggio del Larry O’Brian Trophy, fatto profeticamente proprio qualche giorno prima della partenza di questa stagione) Shawn Marion, Tyson Chandler, Jason Kidd, JJ Barea, Ian Mahinmi, DeShawn Stevenson, Peja Stojakovic, persino quel pazzo assassino di Brian Cardinal e soprattutto quel fottuto genio di Jim Carr… ehm, Rick Carlisle. Ognuno di loro ha portato il suo personale contributo in questa cavalcata vittoriosa, ma nessuno mai potrà mettere in dubbio che senza i tuoi meravigliosi playoff non saremmo qui a festeggiare questo incredibile titolo, che se tu non fossi un signore potresti sbattere in faccia ad un sacco di persone.

In faccia ai bookmakers, che già ci vedevano sfavoriti al primo turno contro i Balzers. In faccia agli analisti, che credevano che i Lakers avrebbero fatto un sol boccone di noi “perdenti”. In faccia alla gioventù dei Thunder, che credevano sarebbe bastata solo la freschezza delle loro gambe per superare una banda di vecchietti. E in faccia ai Big Three di Miami, che recitavano “Not five, not six, not seven…” ma che ora siedono inconsolabili nei loro spogliatoi.

In quello stesso palazzetto, solo pochi metri più in là, ci sono le tue lacrime. Lacrime di gioia, di soddisfazione ma anche di liberazione, perché ora finalmente nessuno potrà mai più permettersi di affibbiarti quell’odiosa etichetta di “loser con cui i supposti esperti classificano i grandi giocatori mai in grado di iscrivere il loro nome nell’albo d’oro della NBA. Come se in uno sport di squadra potesse essere un singolo giocatore, per quanto forte, a determinare la vittoria di un campionato o come se il fatto di non aver mai vinto un titolo potesse trasformare automaticamente in perdente un dieci volte All Star da oltre 20.000 punti in carriera.

Con questo anello e questo titolo di MVP delle finali ti sei tolto davvero un gran peso dalle spalle e ora è il tempo di festeggiare. Perché, come cantavano i Queen, oggi finalmente “We are the Champions”. 

 

Martedì 15 Maggio 2014

Caro Dirk.

Non ti scrivo da un po’. Dopo l’orgia di emozioni del 2011 sono stati anni un po’ sottotono, complice lo smantellamento del nucleo della squadra (prima Chandler e Barea, poi Kidd, Marion e Terry) e un nuovo ciclo che stenta a decollare. Tu continui a produrre prestazioni di assoluto livello (siamo a 26.710 punti and counting) ma il tempo ovviamente passa anche per te e sono arrivati i primi infortuni, dovuti ad un chilometraggio complessivo che comincia a farsi piuttosto elevato, e i risultati della squadra ne hanno ovviamente risentito.

Un cappotto contro OKC al primo turno nel 2012, prima di una stagione 2013 che si è conclusa addirittura senza playoff dopo oltre 12 anni. Quest’anno nonostante le difficoltà abbiamo fatto sudare le proverbiali sette camicie ai soliti Spurs, poi campioni NBA sostanzialmente in carrozza, per cui non credo ci sia nulla di cui rimproverarsi. Oggi hai firmato un rinnovo contrattuale di cui nessuno ha mai dubitato e che ti legherà ai Mavericks fino alla fine della tua straordinaria carriera. Mark Cuban ha detto che sarebbe disposto a rinnovarti anche fino a 73 anni, non posso che essere d’accordo con lui.

 

Martedì 07 Marzo 2017

Caro Dirk.

Che dire di questi ultimi tre anni? I risultati di squadra non sono stati entusiasmanti: due eliminazioni al primo turno da Rockets e Thunder e quest’ultima stagione conclusa con il primo record perdente dai tempi del tuo anno da rookie. Anche le prospettive per il prossimo futuro non sono un granché, siamo in fase di rebuilding e temo ci rimarremo per un po’. Ma dal punto di vista personale hai vissuto questo triennio in una immaginaria corsia di sorpasso, sfrecciando accanto alle più grandi leggende che abbiano mai calcato i parquet della Lega. L’11 Novembre 2014 hai superato il grande Hakeem Olajuwon al nono posto nella classifica dei realizzatori di tutti i tempi, diventando contemporaneamente il primo non-americano per punti segnati nella storia della NBA.

Il 26 dicembre dello stesso anno è stato il turno di Elvin Hayes, mentre il 5 Gennaio 2015 è toccato a Moses Malone finire nel tuo specchietto retrovisore. Entro la fine della stagione hai sfondato quota 28.000 punti e 10.000 rimbalzi, mentre il 23 Dicembre del 2016 persino il grande Shaq ha dovuto cederti la sua posizione in classifica. In mezzo a questa corsa verso l’immortalità cestistica hai persino trovato il tempo, a 37 anni suonati, di piazzare un quarantello contro i Portland Trail Blazers. Roba da superuomini…

Ma il momento più bello di questo triennio è stato sicuramente quello vissuto il 7 Marzo 2017, quando con l’ennesimo “tiro della cicogna” hai superato quota 30.000 punti, con le lacrime sugli spalti del tuo mentore Holger Geschwindner a mischiarsi a quelle di tutti i tuoi tifosi in giro per il mondo. Trentamila… un numero che si fa fatica ad immaginare e che solo tu e altri sei eletti siete stati in grado di superare. Complimenti leggenda!

 

Mercoledì 28 Febbraio 2018

Caro Dirk.

Siamo finiti nella merda per ben due volte in una sola settimana. La prima è stata quando Mark Cuban ha confessato di aver detto ad alcuni tra voi giocatori che da qui alla fine della stagione perdere sarebbe stata la migliore opzione possibile. Questo endorsement al tanking è stato gradito il giusto dai piani alti della Lega e Mark ha potuto ampliare la sua collezione di multe con un Gronchi Rosa da 600.000 dollari. Immagino come la cosa abbia potuto far piacere anche a te, che la parola “perdere” la apprezzi quanto la sabbia nel letto.

Ma il casino vero è legato al lungo reportage di Sports Illustrated, nel quale diverse donne hanno espresso pesanti accuse nei confronti dell’ex amministratore delegato dei Dallas Mavericks e di altri esponenti della franchigia. Si va dalle richieste di rapporti sessuali, ai commenti sessisti, al palpeggiamento durante le riunioni. In pratica hanno definito gli uffici dei Mavs “Animal House in the real life“.

In una tua intervista hai definito la scoperta di questo lato oscuro della tua franchigia come “deludente e straziante”, esprimendo nel contempo il tuo supporto a Cuban nel suo compito di scovare tutti i colpevoli e allontanarli al più presto. Posso immaginare che chi come te ha dato anima e corpo per questa franchigia possa sentirsi tradito, ma tu e i tuoi compagni presenti e passati non avete nessuna colpa, perché le stesse accusatrici hanno precisato come i rapporti con i giocatori e lo staff tecnico siano stati sempre impeccabili e permeati dal massimo rispetto. Questa vicenda rischia di sporcare per sempre l’immagine pubblica della nostra squadra, speriamo solo che possa essere fatta chiarezza e che i vengano tutti individuati e allontanati il più presto possibile.

E dire che in estate hai persino scelto di rinunciare ai 25 milioni che ti spettavano dall’accordo per questa stagione, accettando di trasformarlo in un contratto da 10 milioni in due anni con il fine unico di consentire alla franchigia di avere lo spazio salariale necessario per cercare di migliorare il roster (cosa che peraltro non è avvenuta). Non sono un enciclopedista, ma non credo che nella storia dello sport siano esistiti molti giocatori che hanno rinunciato ad una quindicina di milioni di dollari soltanto per amore verso la propria squadra.

Ai giorni nostri, soprattutto in un certo sport in cui si prende a calci una palla, si abusa molto spesso del termine “bandiera”: bastano un paio di baci alla maglia sotto la curva e l’etichetta è bella che assegnata. Peccato solo che nel mercato successivo molte di queste bandiere tendano a dimenticare i colori sociali della suddetta maglia, per concentrarsi più attentamente sul colore (e la quantità) delle banconote che gli vengono offerte. Ma tu… tu sei diverso. A leggere queste brutte notizie spero non ti sia pentito del tuo nobile gesto, perché puoi star sicuro che quanto hai fatto non sarà dimenticato. Non dalla Mavs Nation. Non da me.

 

Venerdì 11 Gennaio 2019

Caro Dirk.

Pochi minuti fa ho realizzato un sogno. Grazie al preziosissimo pass stampa che scrivere per Play.it Usa mi ha messo a disposizione, ho potuto incontrarti, salutarti e stringere la mano negli spogliatoi del Target Center di Minneapolis dopo la partita tra Mavericks e Timberwolves.Mani due spugne, salivazione azzerata, manie di persecuzione, miraggi.” Questa coltissima citazione dal primo film di Fantozzi descrive esattamente la mia situazione prima di chiederti se potevi fermarti per una foto. La mano tremava talmente tanto che lo scatto è venuto una vera schifezza, ma non mi serve una foto per fissare per sempre nella mia mente quel momento.

Tu eri inca**ato nero, dopo una partita chiusa con uno zero su otto dal campo, ma hai comunque accettato di fermarti e di sorridere all’obiettivo del mio cellulare. Grazie davvero, perché capisco quanto questa tua ultima stagione si stia rivelando difficile da portare a termine. Prima il problema alla caviglia che ti ha tenuto fermo fino a dicembre, poi un ritorno in campo molto difficile per una condizione fisico-atletica che oggettivamente non ti rende più in grado di competere ai livelli a cui eri abituato.

Sono ormai settimane che il pubblico di tutti i palazzetti della NBA ha deciso di celebrarti durante il tuo ultimo giro di giostra, ma nella sua ingenuità il tifoso medio non capisce che gli “Oooh” di entusiasmo quando tiri e le standing ovation quando segni un canestro non sono quello che un campione come te vorrebbe ricevere in questi momenti. Sono sicuro che avresti voluto che quest’ultima stagione assomigliasse molto di più a quella di Tim Duncan che a quella di Kobe Bryant, ma nel corso di oltre vent’anni anni di NBA ti sei fatto talmente amare e rispettare anche dai tifosi avversari che oggi non possono proprio rimanere impassibili di fronte all’ultima occasione che avranno per vederti in azione sul parquet.

Mi viene in mente una famosa canzone dei Coldplay, “Viva la vida”, la cui prima strofa recita così:

“I used to rule the world
Seas would rise when I gave the word
Now in the morning I sleep alone
Sweep the streets that I used to own”

“Ero solito dominare il mondo
I mari si sollevavano quando io lo chiedevo
Ora dormo da solo al mattino
Spazzando le strade che una volta erano mie”

Ecco, credo che nel corso di quest’ultima stagione ti sia capitato varie volte di provare questa sensazione. Credo succeda a tutti quelli che sono stati dei dominatori nel loro sport, abituati nel corso della loro carriera ad essere dei protagonisti e ad essere guardati dagli altri con rispetto, timore, ammirazione.

Ma ricorda che, anche se oggi ti sembra di così difficile stare in campo contro tutti questi giovani, tu potrai sempre portarti dietro la consapevolezza di aver cambiato la storia di questo sport. Perché se vent’anni fa qualcuno avesse detto che un sette piedi tedesco di Würzburg proveniente dall’A2 tedesca sarebbe diventato campione NBA, MVP della Regular Season, MVP delle Finals e sesto marcatore di tutti i tempi, credo sarebbe stato internato di corsa nel primo manicomio disponibile.

Invece è successo. Invece sei arrivato in NBA e hai rivoluzionato la storia del basket. Invece sei diventato un modello a cui altre leggende come LeBron, Wade, Durant, Davis si sono ispirate per modellare il loro gioco. Invece hai fatto innamorare cestisticamente non solo me, ma centinaia di migliaia di persone. Invece… Invece sei stato Dirk Nowitzki. 

 

Mercoledì 10 Aprile 2019

Caro Dirk.

Siamo arrivati all’ultimo capitolo della tua straordinaria storia. Questa notte (come hai annunciato tu stesso ieri sera prima di scriverne TRENTA sul tabellino di addio al tuo pubblico di casa) chiuderai la tua carriera di giocatore professionista di basket e lo farai, oltre a tutto il resto, da leader assoluto di punti, rimbalzi, stoppate, tiri da due, tiri da tre, tiri liberi, partite e minuti giocati nella storia dei Dallas Mavericks.

Prima di te (e forse nemmeno dopo) nessun giocatore è mai stato così indissolubilmente riconosciuto come il volto e l’anima di una franchigia. Tu SEI i Dallas Mavericks e pensare a questa squadra senza di te è praticamente impossibile. Spero che il tuo futuro preveda un ruolo all’interno dell’organizzazione, non sarà la stessa cosa ma sarebbe comunque bello continuare a vederti al palazzetto di Dallas, seppur in borghese.

Qualche settimana fa hai superato anche l’immortale Wilt Chamberlain e concluderai quindi la tua straordinaria carriera al sesto posto assoluto tra i migliori realizzatori di tutti i tempi, con oltre 31.540 punti (dipende da quanti ne farai stasera nella tua ultima partita, che per ironia della sorte giocherai sul parquet degli arcirivali San Antonio Spurs) realizzati in ventuno, lunghissime e meravigliose stagioni.

Lasci una squadra che farà fatica a colmare un vuoto fatto non soltanto di punti e rimbalzi, ma soprattutto di cuore, carattere e leadership. Per fortuna sembra che proprio quest’anno abbiamo pescato al draft un ragazzo decisamente speciale, con il quale (non a caso) sembra tu abbia sviluppato subito una bella amicizia e che ti vede come suo mentore e maestro. Questo giovane sloveno è pronto a raccogliere la tua eredità e per aiutarlo la dirigenza ha portato a Dallas anche un altro giocatore europeo, un lettone che palesemente si è ispirato a te per modellare il suo gioco e che potrebbe essere uno di quei giocatori che definiscono un’intera generazione.

Ecco, Luka Doncic e Kristap Porzingis hanno tutto quello che serve per riportare questa franchigia nell’olimpo della NBA, ma è probabile che durante il percorso avranno bisogno di qualche consiglio, quindi per favore stai vicino ad entrambi e aiutali a rimanere sulla retta via.

Per il resto che cosa posso dirti? Nelle lettere che ti ho inviato in questi ventuno anni trovi un compendio delle emozioni che mi hai fatto provare: rispetto, ammirazione, frustrazione, rabbia, gioia, felicità, ma soprattutto amore. Amore per il gioco del basket, per i Dallas Mavericks e per quel tuo tiro fatato che così tante volte ha accarezzato le reti dei canestri avversari.

Domani forse non sarai più un giocatore di basket, ma di certo nella mia mente il tuo ricordo non invecchierà mai. Grazie… di tutto.

Tuo per sempre, Giorgio

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Eligibles, terza settimana: affari, storie e curiosità dalla free agency

Diventa dura portare avanti una rubrica nel momento in cui le notizie più ghiotte riguardano per la quasi totalità ritiri, ma arrivati a questo punto non ha assolutamente alcun senso fermarsi, in quanto gradualmente ogni roster sta assumendo una forma che verrà poi ridefinita al draft, l’evento che fra poco più di un mese ci darà il primo vero assaggio di NFL: pertanto, per non arrivare alla grande notte di fine aprile impreparati, vi conviene non perdervi nemmeno un episodio di Eligibles, anche se pensandoci con più lucidità, con una semplice scrollatina su Twitter potreste ricavare altrettante informazioni impiegandoci un centesimo del tempo che ci mettereste a leggere tali notizie in queste confuse righe.

1) Un ritiro sottovalutato

Mi piace passare del tempo su Wikipedia a spulciare fra le statistiche ed i riconoscimenti individuali di vari giocatori e questa settimana, dopo il ritiro di Jordy Nelson, una breve incursione sulla sua pagina era assolutamente d’obbligo: con sdegno ho notato che il numero 87 dei Packers è stato convocato ad un solo Pro Bowl, nel 2014, anno in cui ricevette per più di 1500 yards e dieci touchdown. In dieci stagioni Nelson è andato sopra quota mille yards in “sole” quattro occasioni, ma in questo sfavillante poker ha in media ricevuto per quasi 1350 yards e 12.5 touchdown: questi sono numeri da All-Pro, cari lettori.
Ciò che probabilmente ha reso possibile questo abominio è la consistenza del giocatore e la calma della persona in questione, poiché Nelson non è mai stato al centro di scandali, dispute contrattuali o comportamenti sopra le righe: Nelson era semplicemente un vero professionista che avrà modo di trovare il riconoscimento che merita all’interno di quella struttura Packers con la quale nel 2010 arrivò sul tetto del mondo.

2) Un altro ritiro eccellente

Sette convocazioni al Pro Bowl, nove volte inserito in un Team All-Pro e maglia da titolare nella squadra ideale dello scorso decennio: sto sicuramente parlando di un Hall of Famer, no?
No, sto parlando di Shane Lechler, senza ombra di dubbio il miglior punter della nostra generazione: dopo essere stato messo alla porta da Houston lo scorso agosto, Lechler ha pazientemente aspettato una chiamata, non arrivata, per tutta la scorsa stagione fino ad arrivare a convenire che fosse meglio appendere gli scarpini al chiodo.
Troverà un posto a Canton? Molto difficile, in quanto nella storia NFL l’unico punter ad indossare una giacca dorata è il leggendario Ray Guy, il cui palmares ad onor del vero è decisamente simile a quello del buon Shane: l’unica differenza, però, risiede nel numero di Super Bowl vinti, in quanto il tre a zero in favore di Guy ci fa intendere che molto probabilmente, quando arriverà il momento di discutere il suo caso per Canton, i vari votanti punteranno il dito contro tale mancanza. Agli occhi della nostra redazione, però, Lechler è sicuramente un Hall of Famer: magra consolazione, ma comunque consolazione!

https://www.instagram.com/p/Bvoi383n19x/

3) Prima o poi doveva succedere

Non che Jordan Howard non piacesse a Matt Nagy, anzi, è che proprio il suo modo di giocare non si adattava all’idea di football predicata dal Coach of the Year, che ha preferito affidare le chiavi del backfield al meno fisico ma decisamente più dinamico e duttile Tarik Cohen: le voci che ci raccontavano di Chicago alla disperata ricerca di un partner per finalizzare una trade più che annunciata si sono trasformate in realtà la scorsa settimana, quando Howard è stato spedito a Philadelphia in cambio di una scelta al sesto giro che però potrebbe trasformarsi in una al quinto a patto che succedano cose di cui francamente non sono a conoscenza. Howard si inserirà in uno dei backfield più popolosi dell’intera NFL -Smallwood, Clement, Sproles e Adams vorranno tutti la loro parte- con però una concreta possibilità di diventarne il leader viste le caratteristiche tecniche e lo schema di Philadelphia.

4) Iperattività

Non c’è che dire, gli Oakland Raiders si stanno indubbiamente rivelando essere fra i più grandi protagonisti di questa offseason e posso addirittura arrivare a dirvi che quest’anno Eligibles senza un punto dedicato ai Raiders non sarebbe Eligibles: apparentemente sempre con le mani in pasta, Mayock e Gruden zitti zitti si sono garantiti le prestazioni di due giocatori che al momento sembrano destinati ad una pressoché indiscussa maglia da titolare, ovverosia il runningback Isaiah Crowell ed il middle linebacker Brandon Marshall. Considerata l’incertezza attorno al futuro di Lynch, garantirsi un halfback in grado di gestire senza problemi carichi di lavoro fra le 15 e 20 portate ad allacciata rientra senza dubbio nella categoria “buon affare”, anche se personalmente sono più intrigato dall’acquisizione di Marshall, in quanto prima di tutto si sono garantiti un buonissimo linebacker che eccelle nella sempre più importante difesa sui lanci e, fatto non marginale, un veterano in grado di dare un po’ di stabilità ad un reparto ricolmo di incertezze e scommesse.

5) Pesce d’aprile?

Guardate cos’ha combinato Sean McVay a Kliff Kingsbury, nuovo allenatore di quegli Arizona Cardinals che incroceranno due volte a stagione i campioni in carica NFC: visto da tutti come “il nuovo McVay” -anche se ogni allenatore bianco sotto i quaranta viene definito così-, Kingsbury è stato vittima di questo scherzo da parte del “mentore”.

https://www.instagram.com/p/BvuF-A0g2vp/

Lascio decidere a voi se ciò faccia ridere o meno.

6) Pesce d’aprile parte due

Poteva l’MVP dell’Internet, Tom Brady, non partecipare alla festa creata per veri burloni come lui?
Non diciamo fesserie!

https://www.instagram.com/p/BvuI2nzAS8d/

Potevi simularla un po’ meglio però, caro Tom.

7) Un po’ di giustizia, finalmente

Per motivi sconosciuti ai più, C.J. Anderson prima non è stato rinnovato dai Rams e poi, ancora più assurdo, ha passato un mese senza praticamente ricevere telefonate o offerte: considerando il suo curriculum di tutto rispetto e la brillantezza mostrata lo scorso dicembre a Los Angeles, era impossibile trovare una spiegazione razionale al perché un giocatore del genere fosse ancora disoccupato.
Accortisi dell’opportunità, i Detroit Lions non ci hanno pensato due volte e lo hanno messo sotto contratto per il prossimo anno, anno in cui con ogni probabilità farà da gregario al promettente Kerryon Johnson, andando probabilmente a rubargli portate nei pressi della goal line: siamo appena ad aprile, non ha senso iniziare a ragionare in termini di fantasy football ora… vero?

8) È stato… bello?

Con una sana dose di dispiacere e con assolutamente la benché minima sorpresa, la AAF ha ufficialmente chiuso i battenti: considerando che tale rischio si era presentato già dopo il primo weekend di gioco, è quasi un miracolo che tale campionato sia riuscito a trascinarsi fino ad inizio aprile, o se volete vederla in senso contrario, fino a meno di un mese dalla finale. Non discuterò qua le motivazioni economiche e le cifre che hanno portato al patatrac, mi limiterò a fornire quella che credo essere la spiegazione più ovvia ed appropriata dietro tale fallimento: a nessuno interessa veder giocare una squadra condotta da un quarterback fuori dalla NFL da un paio di stagioni, protetto da una linea d’attacco assolutamente non in grado e circondato da skills player che ad ogni drop ci ricordano perché non siano riusciti a trovare spazio in National Football League.
Senza stelle ed appeal come si può vendere un prodotto del genere?

9) Huncho Game 2019

Come lo scorso anno, Quavo -membro dei fantastici Migos- ha organizzato per il proprio compleanno una partitella di football con amici, colleghi e superstar NFL varie: fra gli invitati troviamo Ric Flair, Saquon Barkley, Alvin Kamara, Von Miller, Julio Jones, Nosh Norman ed Eric Reid.

https://www.instagram.com/p/BvuQ6REhrdG/

An sì, c’era pure Colin Kaepernick: nemmeno noi ci dimentichiamo di lui.

10) Nuggets!

Duke Johnson, uno fra i migliori runningback sul terzo down della lega, ha chiesto al front office di Cleveland di essere ceduto a qualsiasi altra squadra abbia un posto per lui: con Hunt e Chubb probabilmente Johnson non avrebbe visto molto il campo. Interessante scambio fra Browns e Chiefs, che hanno finalizzato una trade che porterà Emmanuel Ogbah a Kansas City e Eric Murray a Cleveland, dove probabilmente avrà l’opportunità di contendersi una maglia da titolare visto il buco creatosi con la cessione di Peppers. Gli insaziabili Raiders hanno messo sotto contratto Luke Willson, ex Lions e Seahawks che molto probabilmente spenderà la maggior parte dei propri snaps a bloccare per il runningback di turno.

 

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Celtics – Pacers: Playoffs Preview

La partita tra i Pacers ed i Celtics è quasi sicuramente una preview del primo turno dei playoffs. Le due compagini infatti termineranno la stagione rispettivamente al quarto e quinto posto della East Conference: rimane da decidere in quale ordine. Le due squadre infatti si accingono a questo match con un record 45-31 per Indiana, 44-32 per Boston: in gergo americano, Boston “one game behind” Indiana. La compagine che vincerà questo sprint finale si aggiudicherà il diritto di ospitare una eventuale gara 7 sul parquet di casa.

Atmosfera da playoffs al Garden!

Dunque, da un lato l’interesse per questa partita è dovuta al suo peso nell’immediato futuro di queste due squadre. Dall’altro – per via della alta posta in gioco – è lecito aspettarsi che entrambe le compagini daranno il massimo, il che rende il match un’indicazione affidabile di ciò che vedremo nei playoffs. Una serie che in teoria i Celtics dovrebbero vincere piuttosto facilmente, ma visto l’andazzo in quel di Boston, d’un tratto il fattore campo diventa forse l’elemento determinante nel decidere chi passerà il primo turno.
I Pacers – va riconosciuto – hanno sopperito alla perdita di Oladipo con tanta grinta e voglia di sacrificio: un po’ ci ricordano i Celtics della scorsa stagione. I Green quest’anno hanno avuto una stagione veramente difficile, e praticamente tutti – giocatori, tifosi e stampa – non vedono l’ora che inizino i playoffs. E’ realmente difficile riassumere la stagione dei Celtics. Un’altalena tra periodi in cui si perde, si gioca male e i giocatori se le mandano a dire tramite i microfoni del dopo-partita, e periodi in cui il tifoso più ottimista vuole credere che il peggio è passato e che d’ora in poi sarà tutto come ci si aspettava ad inizio stagione. Ricordate quando i Celtics avevano finalmente messo a tacere tutti i malumori interni su quel volo verso la West Coast? Quando avevano battuto i Warriors di oltre 30 punti, vinto a stento contro Sacramento, battuto la formazione summer-league dei Lakers e perso contro i Clippers di 25 punti? Ecco, appena si cominciava a sperare che si iniziava a fare sul serio, che il terzo posto nella conference era a tiro, i Celtics ne perdono quattro di fila contro Nuggets, 76ers, Hornets e Spurs. E come da copione, appena si ricomincia a perdere, ricominciano anche i malumori ed i battibecchi interni: addio a tutti i “volemose bene” del tanto chiacchierato west coast trip. Kyrie dopo la sconfitta contro Charlotte ad esempio se la prende chiaramente con il coach Stevens, lamentandosi del fatto che Kemba Walker andava raddoppiato e trappato “come fanno tutte le altre squadre nella NBA”. Anche sul campo ritornano le occhiatacce, i rimproveri – per lo più verso il capro espiatorio Jaylen Brown. Riguardo Brown, per tutta la stagione ci siamo domandati il perché di tanta discordia con i compagni ed – ultimamente – coach Stevens. Si, perché Brown ha visto i suoi minuti diminuire costantemente, nonostante negli ultimi due mesi si potrebbe dire che è stato costantemente uno dei giocatori migliori in campo.

Al Horford

Eppure Stevens continua a farlo giocare poco, a levarlo in momenti chiave, anche quando sembra sia l’unico con la voglia di impegnarsi un minimo in difesa. E veniamo al punto dolente di questa stagione, la difesa. I Celtics fino all’anno scorso erano una delle squadre migliori della NBA in fase difensiva. Quest’anno? Not so much. Visivamente, risulta evidente la mancanza di “effort” a tratti da parte un po’ di tutti i giocatori in campo. Anche quando sembra che ci sia l’impegno e la voglia di fare, ci si rende poi conto che spesso si tratta una voglia di giocata individuale piuttosto che cercare la giocata intelligente per il bene ultimo della squadra. Ad esempio, troppo spesso si azzarda nel tentativo di rubare palla o si collassa in raddoppio lasciando vere e proprie autostrade libere sotto canestro. Ma è ormai chiaro che i problemi difensivi vanno ben oltre l’impegno dei singoli, è una crisi sistemica dove gli schemi non danno i risultati sperati o forse semplicemente i giocatori hanno perso fiducia nello stile di gioco dettato da Stevens e tentano di improvvisare e tentare la giocata eroica individuale.
Tanto si è parlato e scritto per tentare di razionalizzare e decifrare questa edizione dei Celtics 2018/19 – tanto blasonata ad inizio stagione – che ha finora deluso le aspettative come poche altre squadre nel mondo dello sport americano. Da semplice osservatore che ha guardato religiosamente ogni partita e che ha avuto anche la fortuna di andare negli spogliatoi in qualche dopo partita – penso che i problemi più grossi siano iniziati durante l’AllStar Break, quando da un lato Kyrie Irving si è rimangiato il proposito di inizio stagione di firmare con i Celtics a lungo termine – “ask me July first“, la risposta stizzita ai cronisti in quella trasferta contro i Knicks. Dall’altro, i trade rumors per Antony Davis secondo cui i Danny Ainge – GM dei Celtics – era pronto a cedere praticamente tutti i giovani – incluso Tatum – per acquisire “The Brow“, anche se solo per una stagione. Il risultato è una squadra che non è più squadra, ma una collezione di individui, ognuno focalizzato a metter su numeri e statistiche per garantirsi un futuro migliore in questo panorama così incerto. Pensateci un attimo, giocatori come Tatum e Brown – 21 e 22 anni – che d’un tratto scoprono che il loro cosiddetto “leader” – Kyrie – probabilmente abbandonerà la nave a fine stagione e la società stessa potrebbe spedirli verso New Orleans quest’estate: è difficile aspettarsi che questi due ragazzi possano continuare a giocare al massimo e per il bene della squadra in una situazione del genere. La speranza di un po’ tutti è che i Celtics arrivino ai playoffs in fase positiva, e magicamente possano mettersi alle spalle tutto questo trambusto iniziando i playoffs come se fosse una nuova stagione. Uno scenario non impossibile, ma che partita dopo partita diventa sempre meno probabile.

La partita contro Indiana è stata sicuramente una boccata di ossigeno per una tifoseria assetata di vittorie e motivi per sentirsi un po’ meno pessimisti. Una partita a tratti bella, dove comunque era evidente la fatica di entrambe le squadre in fase difensiva. Riportiamo di seguito i dettagli del match, quarto per quarto.

Celtics in casacca bianca, in campo iniziano: Baynes, Smart, Irving, Tatum, Horford.
Pacers in uniforme grigia, il quintetto titolare: Collison, Young, Matthews, Turner, Bogdnanovic

Primo Quarto

I primi punti sono di Baynes sotto canestro su assist di Kyrie. Irving subito dopo mette una tripla dall’angolo. Poi ancora Kyrie e Horford, partenza a razzo per Boston 9-1, timeout Pacers dopo appena 2 minuti e 18 secondi di gioco. I Celtics sono partiti decisamente col piglio giusto: tanti movimenti senza palla aprono varchi sotto canestro per lay up facili. Dopo 6 minuti gioco coach Stevens butta dentro Morris al posto di Horford. E’ evidente che Horford sia ancora sotto “minutes restriction“. Poco dopo dentro Hayward, fuori Tatum, Brown dentro per Smart. A 5 minuti dalla fine del primo quarto, in campo Irving, Brown, Morris, Hayward e Baynes. Il pubblico sembra ingaggiato in queste fasi iniziali: brontola non poco per un paio di falli dubbi chiamati contro I Celtics. A tre minuti dalla fine, Boston ha un po’ rallentato dopo la partenza fulminante, Indiana sembra invece aver trovato un po’ di sicurezza: 22-17 Celtics. Al ritorno dal timeout, dentro di nuovo Horford al posto di Baynes. Horford infiamma immediatamente il pubblico con un blocco su Sabonis ed un layup in contropiede subito dopo. Finalmente si vede anche Rozier in campo, dentro a due minuti dalla fine al posto di Kyrie. Horford ancora in evidenza con un bel follow up dopo un layup mancato di Brown in fase di contropiede. Il primo quarto si conclude con i Celtics avanti 35-25. Horford tuttofare 6 punti, 3 rimbalzi e 2 assist, Kyrie e Baynes chiudono il quarto con 7 punti a testa. Tutto bene finora per Boston, anche se ci ha abituato a queste belle partenze per poi collassare nell’ultimo quarto. Staremo a vedere.

Secondo Quarto

Il gioco riprende con i Celtics che schierano Brown, Rozier, Morris, Hayward e Horford. I Pacers rientrano con Joseph, Sabonis, Evans, McDermott e Leaf. Rozier ancora una volt in difficoltà: inefficace in fase di attacco e “soft” in fase difensiva dove troppo spesso concede il layup facile e l “and one” all’avversario di turno. Risultato? I Pacers nel giro di 2 minuti e mezzo vanno si riportano a 3 punti, 38-35 Celtics, timeout Stevens. In attacco i Celtics continuano ad inanellare palle perse concedendo canestri facili in fase di contropiede: Indiana comincia a crederci. E poi Tatum mette due triple di fila, ristabilendo un po’ di cuscinetto per Boston: 48-41, timeout Indiana.
Stevens mette dentro Irving, con Rozier, Tatum, Baynes e Brown. I Celtics patiscono molto in difesa ed infatti subito dopo Stevens corregge, fuori Rozier, dentro Smart. Hayward c’è da dire sta tornando lentamente il giocatore di un tempo. Una piccola dimostrazione è la palla rubata in difesa e il contropiede solitario e dunk per finire. Solamente un paio di mesi fa era impensabile per Hayward questo tipo di giocate esplosive. I Pacers certamente non hanno brillato in questa prima metà della partita, ma sono riusciti a segnare 60 punti a questa difesa colabrodo dei Celtics. Il primo tempo si conclude 63-60 per i Celtics. Boston in attacco ha messo il 51% dei tiri dal campo (25/49), 9 su 17 dai tre punti, 18 assist, 26 rimbalzi, 3 palle rubate e 8 palle perse. Indiana 48% dal campo (21/44) e 7 su 12 dai 3 punti, 14 assist, 19 rimbalzi, 5 palle rubate e 6 palle perse.

Terzo Quarto

I Celtics rientrano col quintetto di partenza, stessa cosa per i Pacers: Collison. Un inizio di secondo tempo favorevole alla squadra di casa: dopo 5:30, 78-71 Celtics, timeout Indiana. Stesso copione del primo tempo: Horford è il primo ad uscire, Morris dentro al suo posto. E come nel primo tempo, subito a seguire Hayward dentro per Tatum.
Entrambe le squadre non sembrano voler rompersi la schiena in fase difensiva: canestri facili per tutti oggi. In questo botta e risposta, i Pacers azzeccano qualche tripla, mentre i Celtics continuano a perdere palla in attacco concedendo punti facili in contropiede. A 3 minuti dalla fine del quarto, Indiana si ritrova avanti di un punto 85-84. I Celtics rientrano con Horford, Irving, Hayward, Brown e Baynes. Poco dopo Rozier dentro per Smart. I Celtics vanno “big”, Stevens sembra molto preoccupato per la stazza di Turner – e giustamente direi. Finora Turner ha 15 punti e 6 rimbalzi, i Celtics non sembrano riuscire a fermarlo se non facendo fallo. Il quarto si conclude con i Pacers avanti di 2 punti, 91-89.

Quarto Quarto

I Celtics rientrano con Brown, Rozier, Morris, Hayward e Horford. Indiana con Joseph, Sabonis, Evans, McDermott e Leaf. Rozier di nuovo una prestazione da dimenticare. Finora un punto e 4 assist e tanti errori sia in fase di attacco – turn overs – che in fase difensiva, dove anche per la sua statura può fare ben poco. Horford decisamente migliore giocatore in campo, continua a dettare i tempi in attacco e a segnare con le spalle al canestro. Si permette anche un paio di sfuriate contro l’arbitro, che sbaglia per due volte assegnando palla ad Indiana quando nel replay risultava evidente l’ultimo tocco da parte di uno dei Pacers: da grande professionista – anche nei momenti in cui le emozioni si fanno sentire – Horford rimane sempre nei limiti, mai sfociando nel fallo tecnico.
E poi Rozier – una serata assolutamente da dimenticare – riesce in fase di rimbalzo difensivo a metterla nel proprio canestro, riportando i Pacers avanti di un punto, 99-98. Auto-canestro?
A 6:30 dalla fine, il punteggio è di 100-99 Celtics. Dopo un timeout dei Pacers, i Celtics si ripresentano con: Kyrie, Tatum, Baynes, Brown e Smart. E’ Kyrie time! E infatti, ruba palla in difesa e sull’azione seguente dribbla tutti e la mette “off the glass” come solo lui sa fare. A seguire Brown mette una tripla e di nuovo timeout Indiana: 105-99 Celtics. I Celtics rientrano con lo stesso quintetto, Indiana rientra con Collison, Young, Matthews, Turner e Bogdanovic. E’ il turno dei Pacers: 6 punti di fila e di nuovo in parità, 105-105, timeout Stevens a 4 minuti dalla fine. Bogdanovic implacabile, finora con 27 punti per Indiana.
Stesse formazioni in campo, Kyrie raccatta due tiri liberi e riporta i Celtics avanti di due, 107-105. Intanto Stevens butta dentro Horford per Tatum. I Celtics continuano a patire la stazza dei Pacers. A 41 secondi dalla fine – in parità – Young grazia i Celtics e si mangia un layup facile facile e Stevens chiama subito un timeout: 112-112. Dentro Morris, Smart, Kyrie, Horford e Brown. La giocata risulta in una palla persa di Kyrie in fase di dribbling, restituendo palla ad Indiana che chiama il suo ultimo timeout a 27 secondi dalla fine. Dentro Baynes, fuori Morris. I Celtics questa volta difendono bene e riescono a raccogliere il rimbalzo dopo il miss di Indiana, timeout Celtics a 10 secondi dalla fine.

A questo punto Boston cercherà di mettere il buzzer. La palla arriva come da copione a Kyrie che va a canestro. Non è proprio un buzzer beater, ma Kyrie la mette con mezzo secondo rimasto da giocare. La partita finisce con i Celtics vittoriosi 114-112, il Garden finalmente si gode una serata a lieto fine.

Le Statistiche

I Pacers registrano un buon 47% dal campo ed un ottimo 44% dai tre punti (12 su 27), un totale di 41 rimbalzi e 27 assist, 12 palle perse e 9 palle rubate. Boston finisce ad oltre il 51% dal campo, un eccellente 48% “from downtown” (13 su 27), un totale di 43 rimbalzi, 14 – troppe – palle perse e 8 palle rubate.

Per Indiana, spicca su tutti Bogdanovic con 27 punti, un efficient 8 su 13 dal campo, con 4 su 7 “from downtown“. Seguono Young con 18 punti ed un ottimo Myles Turner che riporta un double-double con 15 punti e 11 rimbalzi e 3 su 6 dai tre punti.

Super Aaron Baynes!

Per Boston, il solito Kyrie con 30 punti, 5 assist – pochini per un point guard – e 3 palle rubate. Irving in serata altalenante, 50% dal campo – 11 su 22 – e 3 su 8 dai tre punti. A seguire Horford – miglior giocatore in campo questa sera con 19 punti – 8 su 15 dal campo – 7 rimbalzi e 3 blocchi. Per Jaylen Brown una prestazione veramente efficiente: Brown si conferma in forma e decisamente a suo agio nel nuovo ruolo “off the bench“, riportando 16 punti – 7 su 10 dal campo – in appena 27 minuti di gioco. Praticamente tutti gli addetti ai lavori si domandano come mai Stevens si sia intestardito nel far giocare poco Jaylen Brown, chiaramente uno dei giocatori più in forma da qualche mese a questa parte. Hayward sembra sempre più il giocatore pre-infortunio: questa sera una buona prestazione, con 11 punti – 4 su 7 dal campo – e 6 rimbalzi. Per concludere, Aaron Baynes, con un double-double ed una prestazione da incorniciare con 13 punti e 13 rimbalzi. Per una volta gli addetti al marketing dei Celtics ci hanno azzeccato, tappezzando il Garden con volantini di Baynes raffigurato stile superman.

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Arizona Coyotes: comunque andrà sarà un successo

Tra le più belle realtà del panorama sportivo a stelle e strisce troviamo sicuramente gli Arizona Coyotes.

Nel momento in cui scriviamo la squadra di stanza nella Gila River Arena e allenata al secondo anno da Rick Tocchet si trova nei pressi della zona Wild Card a Ovest, vicina ai più forti Avalanche ma con una partita e mezzo di distanza a pochi giorni dal termine della regular season.

Le speranze dunque sono residue e questo lascia un po’ di amarezza se si analizza il periodo recente, nel quale i Desert Dogs avevano preso il comando di questa posizione e vedevano arrancare gli avversari di Colorado, intrappolati e incartati in una sorta di limbo fatto di sfortuna e sconfitte incredibili.

Sarebbe un peccato anche alla luce delle recenti indiscrezioni da parte del Board NHL riguardo un prossimo ed eventuale aumento di partecipanti ai playoff, con un nuovo format che non estenderebbe la durata della postseason ma consentirebbe una limitazione alle trasferte e costi relativi.

Attenzione però: comunque andrà a finire sarà un successo e parleremo di miracolo sia nel caso in cui si agguanti l’ottavo posto ma anche se si mancherà l’obiettivo. Questo perché ad inizio ottobre nell’arido deserto dalle parti di Glendale si attendeva l’ennesima stagione di transizione, fatta di sconfitte, delusioni e di una immagine da squadra cuscinetto.

Parliamo di un team giovane e simpatico che solamente da poco ha ritirato il primo numero della sua storia, il 19 del mitico Shane Doan, capitano che ha giocato con la stessa franchigia un’intera carriera, partendo dai Jets, poi spostati a Phoenix nel 1996.

A succedergli come leader e ad indossare la C sulla casacca è stato il difensore Oliver Ekman-Larsson: una grande soddisfazione per lui arrivata poco dopo aver rinnovato il contratto per otto campionati ad una remunerazione complessiva di 66M. E’ il quarto captain della storia dei Coyotes dopo Tkachuk, Numminem e lo stesso Doan.

Selezionato come sesta scelta assoluta nel 2009, lo svedese ha iniziato la stagione con un dignitoso palmares di 290 punti e 102 gol in 576 partite. Gratificato da tale investitura il ventisettenne da Karlskrona ha disputato la seconda miglior stagione della sua onorevole carriera e appaia l’ex rookie Keller come top scorer.

La dirigenza, per mano di John Chayka, dopo diverse annate deludenti, aveva dato il via alla ricostruzione basata su giovani talenti che ha forse causato il pessimo start dello scorso campionato, fino ad ingranare, concludere il 2018 con un ottimo 17-10-3 e ripartire ad ottobre con più sicurezza nei propri mezzi.

Il Gm oggi, felice per le bellissime performance, la fluidità sul ghiaccio dei suoi uomini e per essere il direttore generale di una realtà definita in più periodi dell’anno “the hottest team in NHL”, ha già annunciato che a prescindere dalla qualificazione in postseason passerà l’estate a rinnovare i suoi uomini di punta.

Tra i buoni colpi messi a segno non possiamo che partire da Nick Schmaltz, giunto a fine Novembre, che avrebbe rappresentato un rinforzo incredibile per il sempre sterile attacco di Arizona, fino a quando prima di gennaio la sfortuna lo ha estromesso dalla scena per infortunio lower body. Per lui 14 punti in 17 incontri. Le due former first round pick Brendan Perlini e Dylan Strome hanno rappresentato la giusta contropartita tecnica per Chicago dando ad entrambe le franchigie lo stesso vantaggio nello scambio.

Ai Coyotes serviva infatti una certezza, un profilo adatto ad inserirsi subito nell’asset da power play come ala destra nella prima linea insieme ai sinistri Keller, Galchenyuk, Chychrun e il capitano. Basti pensare che i 21 gol e 31 assist del 2017/18 (il suo secondo anno) sarebbero stati da queste parti il terzo best score. Ai Blackhawks serviva approfondire le linee prima troppo monodimensionali e soggette soltanto all’estro di Kane e Toews.

Da sempre il tallone d’Achille per i Coyotes, l’offensive zone statisticamente parlando non ha subìto particolari migliorie nonostante gli innesti di Galchenyuk, che scambiato con Domi da Montreal sta comunque rispettando le attese e di Michael Grabner (27 gol nelle ultime due stagioni). Inoltre le grandi aspettative sul rookie Nick Merley non sono andate a buon fine.

Il “primato” di peggior attacco della Western Conference e penultimo dell’intera lega è stato “migliorato” grazie a Stars, Kings e Ducks! Le linee comunque sono fluide, veloci e abili nel recupero disco con Hinostroza, Richardson e Panik in top line a cavarsela dignitosamente.

Certo che la sfortuna in questo reparto ha fatto la sua parte visto che oltre a Schmaltz si è abbattuta anche su altri importanti elementi a roster come Derek Stepan, Christian Dvorak (out per problemi pettorali con solo 17 start) e lo stesso Grabner (Dicembre). Pure la retroguardia è stata bersagliata dal malocchio con Jason Demers fuori a Novembre e soprattutto il goalie Antti Raanta, che grazie ad un sv% di .930 e 2.24 gol subiti per game aveva ottenuto il rinnovo per 3 anni.

Questo settore però si è rivelato il fiore all’occhiello di questo campionato, il motivo per cui Arizona se la sta giocando fino alla fine. Oltre all’accordo con Ekman-Larsson, importante pure l’intesa con Kevin Connauton, che nella rotazione difensiva affianca Goligoski, Hjalmarsson (biennale per lui), lo stesso Devers e spesso il 20enne Jacob Chychrun, ottimo con 20 punti in 52 match dopo l’infortunio al ginocchio. Quinto posto per gol subiti, decimo per tiri contro, secondo per reti in inferiorità numerica e primi nelle percentuali di penalty killing: eccezionale!

Tra i segreti c’è soprattutto quello di aver aggirato “la luna nera” della pesante assenza del portiere titolare con la straordinaria stagione di Darcy Kuemper, giunto come solido backup in un gruppo che in questo ruolo è arrivato a schierare in passato ben cinque giocatori.

Ebbene iniziamo col dire che l’ex Kings contro gli Wild ha ottenuto il quinto shutout ed è riuscito a rimanere imbattuto tra le mura amiche per 120 minuti. Da quando il ginocchio di Raanta ha fatto crack (27 Novembre) il suo bottino personale è stato di 20-11-3, 2.40 goals allowed e .924 percentuale di salvataggi; inoltre tra i goaltender con più di 50 partenze è secondo nelle classifiche di categoria dietro a Vasilevskiy.

Coach Tocchet si è rammaricato che il suo MVP annuale abbia sempre e solo fatto la riserva in carriera e una delle poche opportunità per mettere in mostra la sua forza spaventosa sia stata frutto della casualità e dell’incidente di un compagno.

Ecco, ci piace concludere con questa bellissima frase il nostro articolo, che dimostra come Darcy e i Coyotes siano la cenerentola di tutti gli sport americani e che quasi per caso rappresentino oggi una realtà apprezzata, stimata ma anche ormai temuta da tutti.

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Le ultime flebili speranze degli Hornets

L’incredibile canestro di Jeremy Lamb da metà campo a Toronto, oltre ad un bellissimo e spettacolare festeggiamento di gruppo all’interno del parquet, sembrava un segno del destino per la franchigia del North Carolina, imbrigliata nel marasma generale dei posti limitrofi all’ottavo nella Eastern Conference.

Preceduto e seguìto dalle vittorie casalinghe in clutch time contro Minnesota, Boston e San Antonio aveva inoltre riportato Charlotte a un tiro di schioppo (1 incontro) dallo spot numero otto di Miami e Orlando e dalle seste Brooklyn e Detroit (2 match).

Arrivare a giocarsi la qualificazione in postseason nel mese di Marzo con l’obbligo di vincere quasi sempre per ottenerla non è però nelle corde di un team da parecchio tempo invischiato in un limbo senza uscita, che fa degli Hornets una squadra troppo forte per un tanking selvaggio ma anche esageratamente debole per vincere una serie ad eliminazione diretta.

La sfortuna di “beccare” LeBron James (risparmiato di recente da Walton per ordini dall’alto) e i Warriors anch’essi alla disperata ricerca di W – per altri e più nobili motivi – ha riportato coi piedi per terra Kemba e compagni e nel momento in cui lo scrivente inizia il suo pezzo le speranze di agguantare i playoff sono ridotte al lumicino.

Analizzare l’andamento della stagione di Charlotte è abbastanza semplice; le discutibili gestioni dirigenziali di Michael Jordan, assolutamente distante dietro la scrivania rispetto a quando dettava legge in campo, hanno contribuito ad accumulare un monte stipendi imponente che ha lasciato pochi margini di manovra per rafforzare il roster.

Il team, le cui redini sono state cedute ad uno dei migliori allievi di Pop a San Antonio (James Borrego), per acquisire da un lato la dottrina Spurs e dall’altro porre una ventata di aria fresca da queste parti, ha vissuto l’anno con gli stessi e preventivati alti e bassi del passato recente, con un record sempre tra il 42 e 45%, proprio per l’incapacità di progredire a fronte di contratti esagerati e bloccanti, nonostante il fardello di Dwight Howard non sia più presente.

Se facciamo un esempio col lavoro di Vlade Divac a Sacramento arriviamo a capire meglio il succo della questione: lì con i giocatori simbolo giovani o veterani ancora in progressione (Fox, Hield, Bogdanovic, Bagley e Cauley-Stein) e un payroll spazioso (quasi 30M in meno che qui) si può lavorare nel presente ma anche per il futuro grazie alla crescita dei ragazzi in squadra e alle trade per migliorare reparti deficitari che si verrebbero a creare.

In Carolina del nord invece nei pressi dello start si è provato solo ad aumentare il livello della rotazione, uno dei vecchi talloni d’Achille, con l’arrivo della leggenda Tony Parker, mai giunto però a livelli top, a parte un ottimo metà Gennaio a 13 di media, per colpa di un minutaggio in calando passato da quasi 20 minuti a partita a 14 fino proprio a vedersi scomparire dal parquet e dalla seconda unità per scelta tecnica, con susseguente faccia buia.

Come al solito Kemba Walker si è dimostrato un giocatore eccezionale per solidità, tecnica e rapidità migliorando oltre che sui punti (25.2 per game) anche sui rimbalzi totali, assist e steals. Il suo atteggiamento coi compagni inoltre è da lodare per abnegazione e pazienza dimostrata, riuscendo (con successo) a non far mai trasparire i possibili malumori interiori, dovuti dall’essere ancora costretto a 28 anni a divincolarsi in posizioni di classifica non consone alla sua immensa classe.

Forse il romanticismo e la riconoscenza per chi ti ha fatto sbocciare in NBA (anche se a fianco di Clifford) è ancora presente ai giorni d’oggi, ma di sicuro non sono infiniti. La free agency alle porte, l’anno che non dovrebbe concludersi con la tanto agognata postseason, l’età avanzata e un alone da All Star non più sottovalutata come in passato daranno a KW molti estimatori d’elite che potrebbero convincerlo a sbarcare il lunario altrove rinunciando alle offerte di Kupchak e MJ, che (ovviamente) non dovrebbero scendere da un minimo di 200M quinquennali per riuscire a convincerlo.

Sarebbe una perdita stratosferica, sia a livello morale e motivazionale che tecnico; la stagione è iniziata sapendo che con lui in campo gli Hornets hanno un differenziale positivo (+3.4) rispetto al periodo in cui riposa in panchina (-7.8): numeri impietosi che rimarcano l’importanza del newyorchese.

E’ ironico vedere come gli onerosi accordi con Batum (ancora 24M annui a salire fino al 2021), Marvin Williams (idem a 14M per due anni) e Cody Zeller (tre campionati a 13.5 – 14.5 – 15.4), rispetto ai 12 di Kemba, rappresentino una spada di Damocle che inchioda Charlotte alla mediocrità e all’impossibilità di crescita.

E’ comunque ancora grazie a lui e al modo in cui li trascina attraverso le situazioni più difficili e complicate se la stagione sta terminando con qualche lampo e luce dai prospetti futuri. Malik Monk, ma soprattutto Miles Bridges (chiamato in lotteria a Giugno) e Dwayne Bacon stanno concludendo l’anno lasciando qualcosa di positivo che potrà essere utile nei tempi a venire.

Soprattutto le parole della stella e leader carismatico verso di loro hanno lasciato il segno, aprendo molte porte su un possibile prosieguo insieme. Walker infatti ne ha esaltato le lodi per cattiveria agonistica, energia e velocità, affermando addirittura di non riuscire a rimanere al loro passo e, ancor più importante, ha aggiunto di volersi impegnare al massimo per la loro consacrazione all’interno del team, sia oggi che domani!

Borrego stesso parla del suo campione come un esempio, che rimane a bordo campo a fine match e negli allenamenti a catechizzare i suoi ragazzi, compresi Graham e Kaminsky: atteggiamento da grande uomo ma anche da chi ha dei progetti a lungo termine qui a Charlotte. Staremo a vedere.

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7for7 NBA

7for7 La Settimana in NBA (Ep. 2×23)

Siamo arrivati alla penultima puntata stagionale di 7for7 (ma non disperate, più avanti ci saranno i tanto amati playoff ignoranti) e all’ultima per il sottoscritto, per cui ve lo dico chiaramente in anticipo: scordatevi qualunque speranza di leggere lungimiranti pronostici per la postseason o approfondite disamine tecniche su chi vincerà l’MVP, perché nelle prossime righe troverete quasi esclusivamente corbellerie e facezie di dubbio gusto che con l’NBA hanno giusto quel minimo collegamento necessario a non classificare questa rubrica sotto la categoria “Altro”. Fatta questa doverosa premessa, “Venghino Siori venghino, che più gente entra e più bestie strane si vedono”. (cit)

 

LUNEDI 25 MARZO – NBA ENDGAME

La settimana purtroppo comincia su una nota triste, perché il video (da non guardare assolutamente se siete deboli di stomaco) della gamba di Jusuf Nurkic che si sbriciola non può che far stringere il cuore. Al centrone serbo dei Blazers ovviamente vanno i nostri migliori auguri di una pronta guarigione, mentre per Portland (che al momento ha fuori anche CJ McCullom) si prospetta un’altra avventura piuttosto corta ai playoff.

Detto per dovere di cronaca dei 59 punti messi a segno da Devin Booker contro i Jazz (peraltro utili come un lecca-lecca al gusto di guano, dato che i suoi Suns la partita l’hanno persa di 33), la partita di Salt Lake City è stata rilevante soltanto per la meritata standing ovation che il pubblico di casa ha riservato all’ingresso in campo di JimmerFredette. Il prodotto di BYU è un’autentica leggenda non soltanto nello stato dei mormoni ma anche all’interno della redazione di 7for7, quindi ci uniamo virtualmente al pubblico di casa per festeggiare il roboante 1 su 10 dal campo (vabbè sarà stato emozionato) con il quale Jimmer ha bagnato il suo ritorno sui parquet dello Utah.

Il titolo di eroe di giornata va però meritatamente a Spencer Dinwiddie, che nella giornata di lunedì ha ufficialmente richiesto all’NBA di spostare tutte le gare del 26 aprile per permettere a tutti di andare al cinema a vedere la prima di Avengers: Endgame. Per quella data sarebbero previsti i playoff ma ci sentiamo di unirci all’appello proposto dal playmaker dei Nets, perchè giustamente ubi Thanos, minor cessat.

Se il mondo della NBA si fondesse con quello della Marvel, Thanos potrebbe essere uno e uno solo

 

MARTEDI 26 MARZO – LANCE DANCE

La notte di martedì ha visto andare in scena lo scontro frontale tra i due principali candidati al titolo di MVP stagionale (e i relativi social media manager), ossia Giannis Antetokounmpo e James Harden. Scontro che è stato vinto dal primo, con i Bucks che si sono imposti di fronte al pubblico amico con il punteggio di 108 a 94. Un po’ inferiore alle attese il matchup tra gli attori protagonisti: 23/10/7 per il Barba (ma con 9 su 26 dal campo) e 19/14/4 per il Greek Freak, che comunque resta in pole position per il Maurice Podoloff Trophy, non foss’altro perché Harden lo ha già ricevuto lo scorso anno mentre Giannino è ancora a quota zero.

Molto più interessanti, perlomeno per la redazione di 7for7, della partita tra due superpotenze NBA sono però state le interviste rilasciate ieri da due giocatori NBA, uno ex e l’altro quasi. Nella prima il povero Kris Humphries reclamava sulle pagine di The Player’s Tribune il suo diritto a non essere ricordato soltanto come l’ex di Kim Kardashian (sorry Kris, ma qui butta proprio male), mentre nella seconda un immortale Andrew Bogut ha dichiarato a The Athletic che l’introduzione nella sua routine quotidiana di “a lot more beer” sia stata determinante per il suo ritorno nella NBA.

Ma la dieta a base di birra di Bogut e i rimpianti di Kris Kardash… ehm Humphries sono stati purtroppo superati in dirittura d’arrivo dalla prodezza di Lance Stevenson, che ha mandato clamorosamente al bar il povero Jeff Green con un letale crossover scatenando l’incontenibile esultanza dei suoi compagni della panchina. Compagni tra cui non mi pare di scorgere LeBron, che temo al momento non sia dell’umore giusto per festeggiare la sua prima assenza dai playoff dai tempi delle scuole elementari. Ma Lance è pure sempre Lance.

Come dite? Avevo scritto sopra che avrei evitato come la peste il basket giocato? Dai su, questi Lakers (che pare stiano pensando a Tyronn Lue come nuovo capoallenatore, no dico TYRONN LUE!!!) mica saranno una vera squadra di pallacanestro…

Cosa importa della postseason quando ci sono i balletti di Lance?

 

MERCOLEDI 27 MARZO – LEGENDS OF TOMORROW

Sono un po’ depresso, perché in barba ai miei buoni (o cattivi) propositi oggi non ci sono interviste idiote o esilaranti balletti di cui parlare ma soltanto basket più o meno serio, sempre se volete considerare tale quello giocato dai Phoenix Suns che anche stanotte ne hanno fatti fare 50 a Booker prendendone però 124 dai Washington Wizards.

Mi tocca quindi fare il bravo reporter e rendicontarvi di cose noiosissime tipo:

  • Kevin Durant che fa 12 su 13 dal campo contro i Grizzlies
  • I Thunder che compilano un parziale di 24-0 contro i Pacers
  • Mike Conley che diventa leader ogni epoca a Memphis per punti segnati

“Ma chissene” direte giustamente voi, che siete qui per leggere di teorie terrapiattiste, fidanzamenti delle Kardashian e dinosauri da compagnia. Per tentare di addolcirvi l’amaro calice mi aggrappo ad un trio di leggende: Chris Bosh, Dwyane Wade e Dirk Nowizki. Il primo ha visto proprio ieri ritirata la sua maglia numero 1 dalla franchigia di Miami, gli altri due appenderanno le scarpe al chiodo a fine stagione e hanno entrambi dichiarato di essere stati un reciproco stimolo a migliorarsi in tutto il corso delle loro straordinarie carriere.

Ma tutti e tre si ritroveranno presto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame a condividere la gloria eterna che spetta a chi ha lasciato un segno indelebile nella storia del gioco, stavolta quello serio per davvero.

Modalità “lacrimuccia” ON

 

GIOVEDI 28 MARZO – DUNCAN COMEDY TOUR

Nella notte dell’ultimo scontro tra due delle leggende citate poco più sopra (i Miami Heat di Wade hanno battuto i Dallas Mavericks di Nowitzki 105 a 99), un altro tra i più iconici giocatori della sua generazione vedeva la sua maglia alzarsi per raggiungere il soffitto dell’AT&T Center di San Antonio.

Emanuel David Ginóbili è stato uno dei pilastri di quello che è stato (ed è attualmente, visto che i neroargento non mancano i playoff da quando ancora frequentavo le scuole superiori) uno dei cicli più vincenti nella storia dello sport americano. Il nativo da Bahìa Blanca ha collezionato con gli Spurs ben 4 titoli NBA (oltre ad un oro e un bronzo olimpico, un’argento mondiale, un’Eurolega e altre quisquilie simili) formando con Tim Duncan e Tony Parker un trio di campioni con pochi eguali nella storia del gioco.

Momento clou della cerimonia per il ritiro della maglia del Narigòn è stato comunque lo sketch nel quale proprio quell’esilarante stand up comedian di Duncan (che a quanto pare ultimamente ha deciso di darsi anche al kickboxing) ha ricordato quando al draft del 1999 ha sentito per la prima volta il nome di Ginobili e ha pensato: E chiccazz’è questo?. Risate veramente grasse.

https://www.youtube.com/watch?v=pG4c48gzsTs

Niente da fare, quando uno è un comico nato…

 

VENERDI 29 MARZO – SHOOT DRAYMOND SHOOT

Mentre Kyrie Irving (al quale a quanto pare sarebbero parecchio interessati anche i New Jersey Nets, ma nel caso meglio mettersi in fila) vergava il proprio autografo sull’importante vittoria idei Celtics sui Pacers e LeBron James aggiornava il suo personalissimo cartellino nelle sfide contro Kemba Walker portandolo sul 28-0 prima di ritirarsi a vita privata fino alla prossima stagione, al Target Center di Minneapolis andava in scena una partita insospettabilmente tirata tra la virtuale numero uno del tabellone ad Ovest e una squadra che i playoff li vedrà comodamente dal divano di casa.

È servito infatti un overtime per decidere la vincitrice tra Warriors e Wimberwolves, con i secondi che si sono imposti a sorpresa sui campioni in carica grazie ad una arci-dubbia chiamata della terna arbitrale contro Kevin Durant sulla sirena che decretava la fine dei primi cinque minuti supplementari e con il punteggio inchiodato sul 130 a 130.

La giocata più bella della gara non è stato però l’1/2 con cui Karl Anthony Towns ha sigillato la vittoria dei suoi ma la difesa a “zona di quarantena” con la quale KAT ha contestato (vabbè) il potenziale tiro (ri-vabbè) di Draymond Green, che intimidito da cotanta pressione ha preferito passare la palla.

Roba che manco mio nonno di 87 anni al campetto viene trattato così…

https://www.youtube.com/watch?v=MHRmQ3YOUOo

Notare il gesto sprezzante con la mano fatto da Towns nei confronti di Green.

 

SABATO 30 MARZO – BOBI RIDES THE BUS

Dall’inizio della stagione ad oggi, in questa rubrica ho parlato talmente tante volte degli incredibili numeri di Harden da averne letteralmente il vomito, ma il Barba continua imperterrito a riscrivere la storia degli almanacchi NBA. Nella fattispecie, con il 50/11/10 messo a segno nella partita di sabato contro i Kings ha aggiornato in questo modo il conteggio delle triple doppie ai 50 nella storia della NBA:

  • James Edward Harden Jr = 5
  • Resto degli esseri umani dai dinosauri ad oggi = 9

Vabbè. Siccome sui guai giudiziari di Porzingis preferisco soprassedere, sui Chicago Bulls che si presentano in campo con un quintetto di scappati di casa composto da Shaquille Harrison + Brandon Sampson + Wayne Selden + Ryan Arcidiacono + il gemello scarso dei Lopez per decenza pure, mi resta da riportarvi un’altra curiosa statistica.

Ai Philadelphia 76ers a quanto pare ci sono due giocatori, un play e un centro, agli antipodi della pericolosità oltre l’arco dei 7 e 25. Uno dei due è titolare di uno 0/16 in carriera che lo rende virtualmente il peggior tiratore nella storia del gioco. L’altro al momento tira le triple con il 50% di realizzazione e quindi matematicamente meglio del 47.1% di Joe Harris, miglior tiratore della Lega e campione in carica nella gara del tiro da tre all’All Star Game.

I nomi per favore metteteli voi che a me scappa troppo da ridere.

https://www.youtube.com/watch?v=yKAKzwyqVJ4

Phila abbiamo un problema… ma bello grosso.

 

DOMENICA 31 MARZO – BYE BYE BRACKET

E per chiudere in bellezza (?) eccovi il post muto di un tifoso di Duke a caso (tipo me) dopo la sconfitta dei Blue Devils di stanotte contro Michigan State.

https://www.facebook.com/bleacherreport/videos/259814481564505/?v=259814481564505

Ma porc…

 

Ecco che siamo arrivati al momento dei saluti finali. Andrea Cassini sarà ancora qui tra una decina di giorni per l’episodio finale di questa stagione, ma io anticipo i miei ringraziamenti a quei due/tre lettori affezionati che ci hanno seguito anche quest’anno nelle nostre folli divagazioni extracestistiche (molto extra e poco cestistiche). Grazie di cuore e che le Kardashian siano con voi! O forse meglio di no…. Alla prossima stagione.

Jorghes out

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Full Monday / Football by Dummies (NFL)

Full Monday 2012 – Week 1

Manuel TheAnswer (Manuel Broccoletti) ha aperto questa nuova stagione di Full Monday insieme a Paperone (Alessandro Sola), Ride the lightning (Daniel Molinari) e sul finire della puntata anche con Cernottantasei (Andrea Cornaglia).

I nostri ospiti hanno analizzato le sfide tra Pittsburgh e Denver e tra San Diego e Oakland insieme alle aspettative delle rispettive squadre; poi qualche piccolo commento sui QB rookie starter di quest’anno e il lancio del nuovo editoriale “Clockwork Orange” che ci accompagnerà per tutta la stagione, editoriale a cura di… scaricate la puntata e scopritelo, un gran ritorno da Football By Dummies!

Poi con l’arrivo del buon Cern non potevano mancare 2 parole sull’esordio ufficiale degli arbitri di riserva; in conclusione ci siamo lanciati sui pronostici per la prossima settimana!

Buon ascolto!

[podcast]http://podcast.playitusa.com/mp3/flm4s1p.mp3.mp3[/podcast]

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We're talkin' about... (NBA)

We’re talkin’ about… #5

Quinta puntata di WTA, con il ritorno alla conduzione da parte di Davide Cavati.

Ospiti della puntata Alessandro Gatti, Francesco Andrianopoli, Davide Bortoluzzi e Marco Vettoretti.

– Preview secondo turno ad Ovest
– Preview secondo turno ad Est
– Sguardo agli italiani
– Angolo NCAA: resoconto Hoop Summit

Playlist:
AC/DC – Thunderstruck
Jay-Z – Forever Young
Boston – More than a feeling
Beirut – Postcards from Italy
Bob Welch – Future Games

Buon ascolto !
[podcast]http://podcast.playitusa.com/home/?download=wta5[/podcast]

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Ball don't lie (NBA)

Ball Don’t Lie #8

È in onda l’ottava puntata del settimanale appuntamento con il podcast semiserio sulla NBA.

Anche questa settimana la truppa al completo ci parlerà di

Playoff review: diamo un’occhiata alle serie del primo turno e di come si sono concluse

Ball Don’t Lie countdown: Nicknames. Riviviamo la storia dei nicknames più fantasiosi che ci sono in NBA in 12 imperdibili posizioni-

La posta del cuore: le twitterate del JasOne

Bonus Track: cosa vi avremmo detto se al primo turno si fossero incontrate Miami e New York!

Non ci resta che augurarvi un buon ascolto!

[podcast]http://podcast.playitusa.com/home/?download=bdl9[/podcast]