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Golden State Warriors vs Los Angeles Clippers: Preview

Se c’è una sfida sulla carta meno equilibrata tra le otto in programma per stabilire chi arriverà alle semifinali di conference è quella tra i pluricampioni di Golden State e i cugini californiani dei Clippers.

La squadra con Steve Kerr al timone di comando ha probabilmente vissuto l’annata più difficile tra infortuni, litigi e un leggero e fisiologico appagamento che hanno caratterizzato una buona parte della stagione mentre la franchigia di Los Angeles è arrivata con netto anticipo ai playoff smentendo proiezioni e quote degli analisti che prevedevano 14 vittorie in meno di quelle ottenute (48), dopo aver in pratica disputato due tornei con due squadre diverse.

La prima è stata anche in testa alla classifica ad inizio anno e la seconda, rivoluzionata dalle trade in midseason che lasciano buone opportunità di rafforzamento per il futuro, è riuscita sorprendentemente a mantenersi ai vertici portando a casa un obiettivo che sembrava perduto dopo simili sconvolgimenti.

Nonostante tutto i Warriors hanno conquistato l’ennesimo primo posto ad Ovest (57/25) e relativo fattore campo fino alle eventuali Finals. Ciò a nostro avviso rappresenta una mostruosa dimostrazione di superiorità verso tutte le rivali e la consapevolezza e convinzione (se qualcuno lo avesse dimenticato) che i ragazzi della baia oltre ad essere i più forti a livello tecnico lo sono ancora a livello emotivo e mentale.

Analizzare le chiavi tattiche per evitare uno sweep previsto da tutti è abbastanza facile viste le qualità tecniche più limitate (ovviamente) di una squadra rispetto all’altra. Quel che ci ritorna in mente è la sfida iniziale tra le due franchigie che da un lato segnò l’ennesima prova di buon basket da parte dei Clippers, fisicità sotto al ferro e una panchina profonda come nessuno poteva immaginare, dall’altro le difficoltà enormi dei campioni, in rodaggio atletico, privi del miglior regista al mondo, in attesa di sapere se Cousins sarebbe rientrato e in quale condizione e con un paio di galli nel pollaio a fare la voce grossa e ad insultarsi sul parquet.

Come preventivato un po’ da tutti l’unica medicina utile a sbollire rabbia, sfiducia e depressione sportiva è vincere, e i gialli dell’Oracle Arena non sanno far altro.

A mesi di distanza da quella partita gli uomini di Kerr sono esplosi grazie ad una serie di fattori che li pongono oggi e ancora una volta come i netti favoriti per arrivare a giocarsi l’anello e vincerlo di nuovo mentre il team di Doc Rivers, nonostante come detto abbia cambiato vestito più volte, ha mantenuto le stesse peculiarità di gioco.

Boogie non può ostentare ancora la storica supremazia fisica dei tempi di New Orleans ma il suo inserimento è stato a nostro avviso decisivo, sia a livello psicologico che tecnico. Green ora non è più solo come leader motivazionale, il ferro ha un vero rim protector e le realizzazioni da mid range e il gioco in post si arricchiscono di un manone caldo ed educato, dignitoso anche fuori dall’arco. Inoltre Cousins dà al quintetto base una valenza da Big Five visto l’alone da superstar e l’esagerata personalità che traspare da ogni suo atteggiamento.

A parte l’affaire Durant/Green è anche giusto sottolineare come negli altri precedenti stagionali i Warriors (rinforzati di recente con Bogut) abbiano messo in chiaro la supremazia vincendo tutte le altre sfide.

Il ritmo alto e costante è quello a cui tutti devono attingere per mettere in difficoltà Curry e compagni, così come il gioco in transizione che tanto piace ai Clippers. Puntare a rallentare la contesa sarebbe un suicidio vista la classe di Steph, Durant e Thompson; asfissiare nella fase difensiva Golden State e renderla pigra è l’unica arma a disposizione per chiunque per tentare di fare partita patta, cercando così di sfruttare a proprio favore gli errati posizionamenti che sovente si verrebbero a creare. Il tutto dando per scontato di perdere il minor numero di palloni possibili per non esporsi al contropiede letale che ha reso celebre Golden State, la cui fase offensiva è praticamente ingestibile!

La panchina di L.A. dovrà generare questo tipo di “aggressività veloce” più a lungo possibile dando a Lou Williams le chiavi di creare dal nulla situazioni di qualità e ad Harrell il compito di limitare i danni dai giochi in post dei rivali sfruttando la sua stazza ma anche la rapidità difensiva. Lui e Zubac proteggono molto bene il pitturato ma rispetto agli avversari di ruolo difettano di un tiro poco credibile e potrebbero per questo essere “battezzati” dal coach avversario.

In avanti Gallinari sarà il vero deus ex machina di Doc Rivers, che già prima dell’addio di Harris ne aveva decantato le lodi come regista offensivo, capace di produrre da qualunque lato contesti interessanti, sia in conclusione, circolazione palla e assistenza. I rookie Shamet e Gilgeous-Alexander, insieme a Beverley, verranno seguiti con la lente di ingrandimento per vedere come supereranno l’impatto playoff dopo un’ eccellente regular season, col primo esploso dopo la trade con Phila e il secondo, lontano dal prototipo classico della point guard vista la lunghezza e ampiezza alare, a rischio implosione contro scattisti come Thompson e Curry.

Quest’ultimo, la cui caviglia mette un po’ di apprensione, ha fatto capire per l’ennesima volta come stanno le cose e quanto sia, oltre che un grandioso campione, anche il vero leader dello spogliatoio. Può stare o no simpatico  ma il suo ritorno in campo è coinciso con il recupero in classifica, un miglioramento offensivo con le solite paurose statistiche di squadra e un’armonia di gruppo (vera o presunta) ritrovata. Inoltre i suoi 27.3 per game sono il secondo miglior risultato di una straordinaria carriera e la sua stagione, messa leggermente in ombra dall’asfissiante one man show di Houston, sarebbe degna di un’altra candidatura a MVP.

Evitare il 4-0 darebbe al campionato dei Clippers ancor più valore, passare il turno sarebbe miracoloso.

Come detto giocare quattro quarti limitando con pressing asfissiante i piccoli Warriors è impresa ardua anche perché gli eventuali raddoppi libererebbero Durant, gia immarcabile di suo; allo stesso tempo allargare le maglie darebbe a Cousins la possibilità di sprigionare il suo talento in post e dal mid range.

In attacco le transizioni potrebbero cozzare contro la forza fisica dello stesso Boogie e Green e un ritmo eccessivo sarebbe a rischio palle perse e contropiedi avversari. La second unit tanto rinomata di Rivers diverrebbe ininfluente se il quintetto base di Golden State iniziasse i match ad alto tasso realizzativo.

Infine l’esperienza di chi domina da anni ogni tipo di confronto, sia di regular season che ad eliminazione diretta, è spropositata rispetto a chi si affaccia sul palcoscenico più importante per la prima volta o a distanza di tempo.

 

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Playoffs NBA 2019: i pronostici del primo turno

Playoffs NBA: sabato notte si parte.

Pur dopo una regular season poco impressionante, i Warriors sembrano ancora irraggiungibili, forse per l’ultima volta. Ma nuove contender si affacciano all’orizzonte, specialmente da Est: Giannis reclama il suo posto nell’Olimpo, mentre Kawhi appare l’unico umano capace di fermare i Guerrieri, come ha già dimostrato a tratti ai tempi di San Antonio. Ma come sempre l’Ovest sarà iper competitivo, da Denver a Oklahoma City passando per Houston che ha ancora il dente avvelenato.

Queste sono le nostre impressioni prima che tutto inizi: buon divertimento!

Milwaukee Bucks – Detroit Pistons

Max: l’impatto sotto i tabelloni dei Pistons non è da sottovalutare, ma i Bucks sono talmente organizzati e carichi che faranno fatica anche a perderne una soltanto. 4-0

Giorgio: i Bucks hanno l’MVP in pectore, il miglior record della Lega e un sistema di gioco straordinariamente efficiente. I Pistons hanno agguantato i playoff per il rotto della cuffia (perfino immeritatamente se vogliamo), hanno Blake Griffin acciaccato e Reggie Jackson come capo cordata. Ma di cosa stiamo parlando esattamente? No contest rapido e avanti un altro. 4-0

Andrea: il commovente impegno di Blake Griffin meriterebbe qualcosa di più. Non si è distinto per professionalità negli anni dei Clippers, ma ha accettato la trade mettendo la testa bassa e continuando a migliorare. La squadra però è quella che è. C’è Reggie Jackson. Quindi è sweep per quegli altri – a maggior ragione perché non credo che i Bucks imploderanno ai playoff come in molti suggeriscono. 4-0

Francesco: Milwaukee accede alla post-season forte di sessanta vittorie e di un probabile MVP in Giannis Antentokounmpo, con un sistema moderno e un gruppo rodato ed efficiente, mentre Detroit è arrivata a giocarsela in modo un po’ rocambolesco, perdendo sette delle ultime undici partite. Pur schierando Blake Griffin, Andre Drummond e Reggie Jackson (e avendo in panca un COY come Casey) i Pistons saranno poco più di uno sparring partner per i ragazzi di coach Budenholzer, dai quali li separa un divario organizzativo abissale. 4-0

Toronto Raptors – Orlando Magic

Max: primo turno di tutto riposo per i Canadesi, che potrebbero vincere la serie anche schierando solo il secondo quintetto. Tutto questo senza nulla togliere all’enorme lavoro fatto da Clifford in Florida con una squadra di scappati di casa, gente senza arte nè parte che si è sbattuta tutto l’anno e alla fine ci ha creduto. Tanto di cappello, ma ora con Kawhi si è finito di scherzare. 4-0

Giorgio: la bella rincorsa finale dei Magic, guidati da uno spettacoloso Nikola “I’m in Contract Year” Vucevic, li ha portati a raggiungere una postseason che solo fino ad un mese fa sembrava un miraggio. Toronto però è squadra superiore sotto ogni punto di vista e nel primo anno senza lo spauracchio LBJ ha tutte le intenzioni di andare fino in fondo. Simply too much. 4-0

Andrea: Toronto è forse l’unica, solida certezza della griglia playoff a est del Mississippi. Non si accontenteranno di niente di meno della finale, e hanno l’esperienza necessaria per macinare gli avversari di più bassa caratura (come sarà il caso per questi Magic, finiti lì un po’ per caso). Vedremo più avanti, Toronto è attrezzatissima per le Finals e senza vedersi davanti il faccione di LeBron al secondo turno l’aria dell’Ontario potrebbe rasserenarsi. 4-0

Francesco: Se per Kawhi Leonard e Toronto il bello inizia ora, per i Magic di Vucevic l’obiettivo stagionale era semplicemente approdare ai Playoffs; una differenza d’ambizioni che lascia poco spazio per un pronostico aperto. Sarà viceversa una serie importante per alcuni giocatori di Orlando che avranno l’opportunità di misurarsi con il basket NBA “vero”, mentre per i Raptors questo primo turno costituirà un utile rodaggio in vista delle battaglie che li attendono dal secondo turno in poi. 4-0

Philadelphia 76ers – Brooklyn Nets

Max: lo dichiaro subito, sono innamorato perso di questi Nets, di come sono stati resuscitati dalla nuova dirigenza scuola Spurs, dai colori, dallo stile di gioco, dall’anima della squadra. Nel loro piccolo, hanno molto più talento dei Magic, ma questo non vuol dire purtroppo che siano già pronti ad impensierire Philadelphia in una serie di Playoffs. Peccato. 4-1

Giorgio: I Nets sono forse la più bella sorpresa della stagione e potrebbero strappare una gara in casa di puro entusiasmo giovanile, magari approfittando di un Embiid che potrebbe iniziare la serie in tribuna. Ma i Sixers hanno semplicemente troppa qualità ed esperienza per non prevalere alla distanza. P.S. Il duello Boban Marjanovic vs Jarret Allen promette spettacolo puro. 4-1

Andrea: I Sixers sono un’altra grande incognita, alla fine tutto il talento di cui dispongono ha cominciato a fruttare, ma coi malumori di Butler c’è paura che il giocattolo si rompa da un momento all’altro. I Nets sono clienti scomodi perché, all’opposto, non hanno nulla da perdere e vengono da un brillante finale di stagione. Con un Embiid così dominante, però, non si scende a compromessi. 4-2

Francesco: Joel Embiid e Philadelphia sono gli ovvi favoriti del pronostico, perché Brooklyn è una franchigia encomiabile per idee e professionalità, ma dispone di un roster che non definiremmo una cornucopia di talento. Nelle sue vesti di GM Elton Brand ha costruito un quintetto a base di star-power, aggiungendo Tobias Harris e Jimmy Butler a Simmons e Embiid. La struttura dei Sixiers potrebbe pagare dazio più avanti nei Playoffs, quando la pochezza della second-unit verrà esposta, ma contro Russell e Kurucs dovrebbe bastare la forza d’urto dello starting five. Restano da appurare le reali condizioni fisiche di Embiid (la sua assenza cambierebbe completamente la serie) e la sensazione è che coach Atkinson sia due piste avanti rispetto a Brett Brown. 4-2

Boston Celtics – Indiana Pacers

Max: Finalmente una serie ad Est con un minimo di rischio upset. Ma solo un minimo, perchè i BiancoVerdi hanno Irving, e Indiana… Collison. O Boston implode, oppure l’upset non si vedrà neanche in cartolina. 4-2

Giorgio: i Celtics sono favoriti, ma soltanto perché i Pacers sono orfani del povero Oladipo. Serie comunque tirata, che sarà soltanto l’antipasto di una postseason che si preannuncia decisamente complicata per quelli in verde, non tanto per la qualità del roster (che è altissima) quanto per uno spogliatoio che sembra sempre ad un millimetro dall’implosione. 4-3

Andrea: Boston ha vissuto una stagione deprimente, puntava molto più in alto, ma paradossalmente ai playoff potrebbe fare meglio – negli scontri diretti con le big ha uno score invidiabile. Però mancherà Marcus Smart, che è l’anima di questa squadra, mentre i Pacers hanno già fatto gli straordinari senza Oladipo – che è l’anima e pure il corpo. Immagino una serie combattuta ma non troppo spettacolare, i Celtics dovranno cercare di uscirne con entusiasmo. 4-3

Francesco: Orfani di Victor Oladipo, i Pacers si sono dimostrati resilienti e capaci di ripetere l’ottimo 2017-18, confermando la bontà tecnica del progetto portato avanti ad Indianapolis. Boston è una franchigia di ben altra levatura, ma l’infortunio di Marcus Smart ha generato una certa irrequietudine presso chi ne conosce il peso emotivo (e difensivo) per i bianco-verdi, in previsione di una serie che non sarà vinta di puro talento. Indiana ha costruito le sue fortune battendo con costanza le squadre abbordabili, mentre la nuova coppia Horford-Baynes assemblata da coach Stevens ha ridato slancio alla squadra, e dovrebbe bastare per avere la meglio di Sabonis e compagni. 4-2

Golden State Warriors – Los Angeles Clippers

Max: Dopo una stagione sotto il par per i loro standard, i Warriors si ripresentano in questi playoffs con lo stesso personale delle ultime 4 stagioni più un Cousins quasi in salute. I Clippers non avranno timore ad affrontarli in partite ad alto ritmo, ma non è detto che sia un bene, per loro. 4-1

Giorgio: Non è chiaro se esista qualcuno in grado di fermare questi Warriors, ma è decisamente improbabile che possano farcela i Clippers. La grande stagione di Gallinari e soci (seppur finita in calando) merita comunque il massimo rispetto, mentre per i Dubs questa serie servirà soltanto come riscaldamento in attesa di avversari più attrezzati al confronto. 4-1

Andrea: Bella la storia dei Clips, avvincente il modo in cui hanno difeso il posto nella griglia playoff e grandi speranze per il Gallo in azzurro, ma Golden State ha altro a cui pensare e non credo che si distrarranno al punto di cedere una partita. Avanti un altro. 4-0

Francesco: Recentemente rullati in RS con un distacco finale di 27 punti, i Clippers di Rivers e Gallinari (per quanto encomiabili e sorprendenti) sono probabilmente l’avversario che Steve Kerr si augurava di incontrare al primo turno. I Dubs hanno vinto tre dei quattro incontri stagionali, e l’unica flebile speranza per Los Angeles è che G-State si presenti scarica mentalmente al cancelletto di partenza. Difficile che succeda, anche considerando le 16 vittorie su 18 partite con cui Curry & Co. hanno inaugurato le loro recenti scorribande ai Playoffs. 4-1

Denver Nuggets – San Antonio Spurs

Max: Prevarrà il bel gioco di Denver o il sistema Spurs? Jokic riuscirà ad essere efficace anche nei playoffs o avrà la meglio Aldridge nello scontro diretto? Teoricamente San Antonio è più corta e DeRozan non è esattamente un giocatore da post season, ma di Popovich ce n’è uno solo. 4-3

Giorgio: Giovani contro vecchi. Freschezza contro esperienza. I Nuggets di Jokic meritano solo applausi per la stagione disputata, ma per far fuori Popovic in una serie alle sette partite potrebbe non bastare. Gli Spurs troveranno il modo di “rubare” una delle prime due gare in Colorado e di mantenere il fattore campo fino alla fine. Almeno secondo me, che notoriamente nei pronostici non ci prendo mai… 2-4

Andrea: Onore al merito per San Antonio, altra qualificazione guadagnata contro i favori del pronostico, ma Popovich ha anche beneficiato del livello calante della competizione nelle fasce medio-basse della Western Conference. Questi Nuggets sono all’esordio playoff e rischiano di sudare più del dovuto coi veterani in neroargento, ma non credo che abbiano conquistato il secondo posto per caso. Si inizierà a capire, però, se la pallacanestro di Jokic e compagni può essere adatta anche alla postseason. 4-3

Francesco: Apprezzatissimi dalla critica, divertenti e vincenti, i Denver Nuggets inizieranno i Playoffs con un’autentica prova del fuoco: San Antonio non è più una contender, ma resta una squadra pericolosa, ben allenata ed esperta. Coach Malone ha fatto autoironia parlando dell’argenteria di Popovich, ricordando che il suo unico anello è quello del matrimonio, e questo rende l’idea di come Denver (prima apparizione ai PO dal 2013) non si senta affatto favorita, a dispetto della seconda piazza ad ovest. Il rendimento di Nikola Jokic sarà l’epicentro della serie, ma occhio anche all’esperienza di Millsap e ai possibili passaggi a vuoto di DeRozan. 3-4

Houston Rockets – Utah Jazz

Max: Discreta gatta da pelare per i Rockets, che comunque sono cresciuti per tutta la stagione ritrovando almeno in parte l’efficacia difensiva della passata stagione. Sull’attacco niente da dire, palla ad Harden e Paul e pedalare. I Jazz come tutte le squadre ben organizzate e povere di talento nei Playoffs faranno fatica, è ingiusto ma è così. 4-1

Giorgio: E se… Harden è un mostro e i Rockets sono pur sempre (più o meno) gli stessi che meno di 12 mesi fa sono andati ad un bicipite femorale di distanza (forse) dal detronizzare Golden State. Ma occhio perché Quinn Snyder è un cliente (molto) scomodo e la Energy Solutions Arena il campo più caldo della NBA. L’uomo barometro della serie? Joe Ingles. Vado con l’australiano e con il clamoroso upset. 2-4

Andrea: Utah è un’ottima squadra ma Donovan Mitchell si è già giocato il fattore sorpresa e non c’è molto che coach Snyder possa opporre ai Rockets che, in un modo o nell’altro, dopo l’inizio disastroso si presentano ai playoff con una situazione ideale. Dateci la rivincita coi Warriors, please. 4-1

Francesco: Complice il percorso accidentato di Houston, quella che era stata nel ’18 una semifinale di Conference, si ripropone a 12 mesi di distanza già al primo turno, e saranno scintille tra Harden e Mitchell, tra Gobert e Capela, oltre che tra due allenatori intriganti per capacità di costruire una “cultura” (e in fondo, anche questa può essere una lettura, sia pure un po’ scontata: la difesa di Snyder contro l’attacco di D’Antoni). Terrà banco anche la tenuta fisica del rientrante Derrick Favors, e, per Houston, il rischio è di scontare sul più bello tutta la fatica (fisica e mentale) di una stagione trascorsa rincorrendo. 4-3

Portland Trail Blazers – Oklahoma City Thunder

Max: Scommettere contro i Blazers ai playoffs è troppo facile, dopo la brutta figura rimediata la passata stagione contro dei Pelicans non irresistibili. Questi Thunder a livello di quintetto possono essere stellari, a livello di panchina molto meno. La sfida nella sfida Lillard – Westbrook sarà spettacolare, quella Kanter – Adams un filino meno. 2-4

Giorgio: Il bruttissimo infortunio di Nurkic ha messo una pietra tombale sui sogni di gloria dei Blazers, spiace soprattutto per Lillard che sembra letteralmente perseguitato dalla sfiga. I Thunder sono incostanti, brutti e confusionari. Ma difendono come pazzi e la coppia Westbrook + George può davvero fare sfracelli. Sono tre anni che metto su OKC il mio dollaro “sbagliato” per la finale NBA, sarà finalmente la volta buona? 1-4

Andrea: Spiace pronosticare un’altra uscita di scena prematura dei Blazer, identica all’imbarcata presa l’anno scorso dai Pelicans, ma l’infortunio di Nurkic è uno di quei colpi che ti toglie il fiato. Portland va avanti a forza di regular season solidissime, ma pecca in entusiasmo e ha già dimostrato di subire molto questi cali di umore. OKC, al contrario, non ha mai convinto del tutto in queste 82 partite ma ha sempre dato l’impressione di avere qualche chip da parte, da mettere sul piatto nei playoff, e potrebbero mangiarsi i Blazers semplicemente col maggiore agonismo. Il Paul George visto quest’anno merita una deep run, considerando anche che Golden State e Houston sono dalla parte opposta del tabellone. 0-4

Francesco: Sarà Portland ad avere il fattore campo, ma lo sweep rifilato da OKC ai Blazers nel corso della Regular Season parla chiarissimo: i favoriti, anche e soprattutto dopo il terribile infortunio dello sfortunato Jusuf Nurkic, sono Russell Westbrook e compagni, a partire dal clamoroso Paul George di quest’annata vissuta in stato di grazia. L’impressione è che la tenzone abbia un padrone tecnico abbastanza chiaro (per quanto Stotts sia probabilmente migliore di coach Donovan), e servirà davvero una serie devastante da parte di Lillard & McCollum per dare ai Trail Blazers una chance di competere. 1-4

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Toronto Raptors vs Orlando Magic: Preview

Una contender habituè dei playoff contro un underdog di inizio stagione: si racchiude così Raptors-Magic, serie tra un team che ha dominato in largo e in lungo la regular season, insieme ai Bucks, e una squadra da sempre in rampa di lancio ma arrivata più volte al mese di marzo senza più speranze di proseguire la corsa.

Attenzione però: se i Magic sono arrivati a destinazione con un dignitosissimo settimo posto totale a Est, un record finalmente sopra al 50% (42/40) e la vittoria nella Southeast lo devono per lo più ad un gruppo fatto di veterani arrivati alla maturazione definitiva e non a giovani rivelazioni come ad esempio Isaac ma soprattutto Bamba.

Lo scatto d’orgoglio delle ultime settimane è avvenuto grazie alla costanza di un giocatore ormai affermato come Nikola Vucevic, aiutato nell’impresa dai sempre costanti D.J. Augustin, Evan Fournier e ad un sesto uomo coi fiocchi come Terrence Ross, letteralmente decisivo nello sprint finale coi suoi 23 di media a partita nella fase più calda della stagione, dimostrando così una inusuale mentalità vincente e grande personalità. Sempre funambolico in attacco ma molto scostante nelle altre fasi Aaron Gordon.

Dal canto loro i Raptors arrivano all’esame della maturità, quello decisivo per la loro storia. I campionati passati fatti di record abbattuti, primi posti di conference e un costante spettacolo sul parquet non bastano più: si punta all’obiettivo minimo delle Finals.

Negli scontri diretti di questa annata registriamo una vittoria al fotofinish di Toronto grazie a Danny Green, a seguito di un’eroica rimonta degli avversari a fine novembre, un dominio Magic dopo Natale dove lasciarono gli avversari al 29% dal campo e col maggior scarto di punti di tutto il 2018/19, un’altra W in trasferta per Ross e compagni il 24 febbraio con l’ex Raptors dominante ed infine i canadesi ad interrompere di recente la striscia vincente degli avversari grazie ai 29 del solito Green.

Se ci fosse logica nei trascorsi tra le due compagini potremmo concludere che sarà una serie equilibrata; dal nostro punto di vista però sarà difficile che Toronto si lasci sfuggire il secondo turno. Quel che è certo è che i ragazzi di Clifford faranno soffrire quelli di Nurse.

Il ritorno in postseason di Leonard sarà la chiave di tutta la serie, l’ago della bilancia che dovrebbe risultare decisivo per i suoi, più che per la fase difensiva – sempre di livello – per quella offensiva. Infatti con lui a sviluppare un gioco più eclettico in avanti coi classici movimenti cadenzati ma immarcabili, si libererano spazi perimetrali per i tiratori invece in difficoltà se pressati (Lowry, Green, VanVleet, Lin e Siakam) coinvolgendo inoltre pure in post il gruppo di lunghi probabilmente dalla mano più calda da fuori di tutta la lega (lo stesso Siakam, Ibaka, Gasol).

Saranno importanti e cruciali però le sue percentuali dal campo e quale stratagemma Clifford (tre apparizioni ai playoff su sei da head coach) studierà per limitarlo. E’ proprio la sua esperienza e abitudine al palcoscenico da playoff il motivo della mossa a sorpresa di Masai Ujiri nella offseason 2018.

Ci sentiamo di nominare ancora DG#14 come altra chiave della sfida per i suoi, vuoi per il feeling col vecchio compagno sperone, per l’indottrinamento da Pop e l’affidabilità a marcare i veloci top scorer avversari, ma anche perché, come accennato, è proprio contro i Magic che riesce ad esprimersi al meglio (14 pts, 50% da tre, 4.5 reb e 2 assist per game).

Ribadiamo per Orlando Vucevic e Ross come pedine per scardinare la difesa avversaria. Il primo ha disputato la stagione della vita da tutti i punti di vista, fino a divenire il primo All-Star del club dai tempi di Dwight Howard (2012) ed è oggi un “7-footer” versatile in ogni zona del campo e quindi difficilmente contrastabile sia sotto al ferro che da fuori. Vuc è migliorato anche come uomo squadra e regista, aiutando il coach a limitare proprio quella che è una delle lacune principali da anni qui in Florida. Proprio in uno degli head to head stagionali con i prossimi avversari ha sfiorato la tripla doppia.

Il secondo è l’unico giocatore che da profondità al roster e potrebbe risultare una variabile impazzita.

Negli sport americani fare previsioni è sempre sconsigliato. Certo è che la profondità di un team voglioso di arrivare in fondo e arricchito di due grandi profili da win or go home ad inizio anno, da un esperto e forte top center come Marc Gasol ed un velocista al nono anno NBA come Lin fa pendere i favori dei pronostici tutti per i canadesi.

Raddoppiare Vucevic e Ross lasciando liberi Augustin, Fournier e Gordon è una cosa, farlo con Leonard e Siakam lasciando però spazio a Gasol, Green, Ibaka o Lowry è un’altra.

Orlando farà affidamento sulla fiducia acquisita nella rimonta di fine stagione, sul fatto che non ha nulla da perdere e sull’aggressività difensiva con la quale spesso ha limitato le percentuali altrui; è però anche vero che pure le partite a basso tenore realizzativo sono nelle corde dei Raptors che possono infatti contare su un gioco in marcatura e una panchina secondi a pochi altri.

Inoltre mentre per Toronto è la sesta apparizione consecutiva in postseason, Orlando ritorna dopo sei anni e potrebbe risentirne a livello emotivo e di esperienza.

 

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Per favore Antonio Brown, smettila

Il livello d’emotività, nella lunga storia di Play.it USA, probabilmente non è mai stato così alto: qualche settimana fa ringraziai l’amico-nemico Gronkowski per avermi regalato sinceri sorrisi per tutto l’ultimo decennio e pochissimi giorni fa l’amico e “collega” Giorgio Barbareschi ha salutato il suo mito Dirk Nowitzki con una serie di lettere che se avete un cuore non potete non aver letto -veramente, avete l’obbligo morale di dedicare loro dieci dei vostri minuti- ed io, sempre attento alle vostre reazioni e sempre desideroso di regalarvi qualche minuto di disinteressato svago, ho pensato di portare avanti questo trend -se così si può definire- e comporre un’altra lettera, sempre ad uno sportivo che ho amato alla follia nonostante i colori indossati.
“Ho amato”: passato prossimo? Ebbene sì, dopo mesi e mesi di sceneggiate, soprannomi auto-affibbiatisi totalmente a caso e tinte ai baffi, non so di preciso a che punto sia la mia relazione con Antonio Brown.
AB il giocatore rimane un fenomeno assoluto che personalmente credo riuscirà a fare faville pure ad Oakland, ma Antonio Brown l’umano, ai miei occhi, è assolutamente caduto: il beef con il povero JuJu Smith-Schuster è la proverbiale goccia che ha fatto traboccare un vaso che ho tentato di svuotare più e più volte, fino a pochi giorni fa.

AB, siediti ed ascoltami.

Per favore Antonio Brown, smettila.
Te lo chiedo con il cuore in mano, smettila di metterti in ridicolo con puerili faide online: il tuo uso dei social media è indubbiamente parte di ciò che sei e, soprattutto, del personaggio che amiamo -o meglio, che amavamo- ma a questo punto della tua carriera e vita devi avere la lucidità per capire quando effettivamente sia ora di farla finita.
Potrò forse sembrarti drastico, ma in questi ultimi mesi ci hai reso il semplice volerti bene parecchio difficile e francamente io, Mattia, ho premuto malinconicamente il tasto “pause”: il bisogno di staccarmi per un attimo da te e riflettere sul nostro rapporto me lo hai provocato tu, caro Antonio, a forza di tweet ridicoli.
E fidati, questo è un sentimento comune: i social media pullulano di “JuJu is better” che non sono il frutto di analisi di dati prettamente sportivi, ma semplicemente reazioni viscerali al veleno che stai sputacchiando istericamente da un paio di mesi a questa parte.

Posso capire le tue critiche a Roethlisberger, non deve essere facile giocare con un quarterback che ad ogni piè sospinto meschinamente e cinicamente non perde il vizio di lanciare qualcuno sotto il proverbiale bus nelle frequenti apparizioni radiofoniche: non ti appoggio per un’antipatia personale verso Big Ben, ma semplicemente perché ho prove tangibili del comportamento fastidioso e distrattamente autoritario sotto forma di video o spezzoni di interventi radiofonici. Ovviamente tu avresti potuto essere la persona migliore e lavare i panni sporchi in casa tentando di parlarne a quattr’occhi con l’interessato, ma chi sono io per condannare comportamenti passivo-aggressivi? E soprattutto chi mi dà la garanzia che un colloquio privato non sia mai avvenuto?
Questa te la perdono.
Posso non condividere il tuo risentimento verso Tomlin, ma immagino che dietro tutto ciò ci sia un qualcosa che solo voi due saprete e che, sciaguratamente, lo ha spinto a lasciarti in tribuna contro Cincinnati. Ma anche tu, abbandonare lo stadio prima dell’inizio della seconda metà di gioco… puoi essere molto meglio di così, caro Antonio.

I miei problemi con te, Mr. Big Chest, sono iniziati da quello sciagurato tweet in risposta a Kittle:

Da quel momento, nulla è stato come prima.
Hai iniziato a scornarti con Emmanuel Sanders nel momento esatto in cui a ringhiarti è stato Bruce Arians: lasciare andare non era un’opzione plausibile? Neanche per sogno?
Immagino le voci di un possibile approdo a Buffalo ti abbiano causato incubi per giorni, ma dimmi, perché dopo che gli Steelers hanno esaudito il tuo desiderio facendosi rapinare dai Raiders non hai sepolto l’ascia in attesa di sguainarla a settembre in campo? Che bisogno ha il miglior ricevitore della sua generazione -o perlomeno il più produttivo- di rispondere ad ogni minima critica su Twitter? Hai mai guardato i tuoi numeri? Non credi che basterebbe lasciar la parola a loro per uscire a testa alta da ogni discussione?
Tante domande a cui può rispondere un solenne “evidentemente no”.
Peccato Antonio, hai sprecato una ghiotta occasione, ma se proprio devo essere sincero, anche se qualche volta mi facevi passare quarti d’ora interi a sbuffare, ti stavo volendo ancora genuinamente bene.

Poi, per motivi squisitamente Tuoi, hai deciso di aprire il fuoco su JuJu: hai letto bene, aprire il fuoco.
Non ha mai menzionato il tuo nome ed anzi, era contento che il suo “mentore” avesse messo la propria firma sotto il tanto desiderato nuovo contratto, contratto che un giorno vorrebbe essere nella posizione di firmare pure lui: questo lo sai e lo hai dimostrato con un altro rivedibile tweet.

Cosa vuoi che faccia? Che ammetta una probabilmente inesistente frizione con il proprio quarterback? Cosa può fare? Dichiarare guerra ai piani alti della squadra in cui vorrebbe giocare per tutta la carriera per continuare a poter essere il tuo little bro? Non essere ridicolo.
Per favore, fermati per un secondo e rifletti.
Non ti è bastato questo tweet per togliere JuJu dalla lista delle persone da infamare in questa impegnativa offseason? Perché hai dovuto portare avanti il tutto ed andare oltre, eccessivamente oltre?
Posso umanamente concepire la gelosia tra “fratelli”, però non ti è sembrato il colpo basso del lustro condividere uno screenshot di un ricevitore diciottenne che chiede ad uno dei suoi idoli consigli su come migliorare? Sai che molto probabilmente tutto ciò che voleva quell’ancor più giovane JuJu era una tua semplice risposta? Ti rendi conto di quanta felicità avrà provato nel momento in cui gli avrai dato un consiglio annacquato di circostanza?
Perché tentare di metterlo in ridicolo sbandierando un comportamento con il quale la quasi totalità di noi può empatizzare?
Così rendi facile a chiunque odiarti, anche al più fedele dei tuoi sostenitori che per anni, imperterrito, ti ha anteposto ai vari Jones, Hopkins e Beckham Jr. in improvvisate classifiche di posizione.
Sì Antonio, molto facilmente continuerò ad emozionarmi alle tue ricezioni o a rifarmi gli occhi nuotando fra statistiche che ci raccontano di un’efficienza da sicuro Hall of Famer, però lo farò molto con molto più distacco di prima: ho un’età in cui per forza di cose gli sportivi non possono più essere “i miei modelli di vita”, però come dire… il tuo comportamento negli ultimi mesi mi sta spingendo a rimanere indifferente alla tua persona.
Odiarti? Assolutamente no, non diciamo sciocchezze, “è solo un gioco” alla fine, ma francamente non ne posso più di cercare giustificazioni ai tuoi colpi di testa, non ne posso più di arrampicarmi sugli specchi di un’abusata empatia che ha pure portato il tuo ex compagno Rashard Mendenhall ad invitare il pubblico “ad empatizzare con l’uomo dietro l’ottantaquattro”, non ho più voglia di sprecare tutto questo tempo a riflettere sui tuoi comportamenti.

Sembravate così felici insieme…

Non ne vale più la pena, in quanto mi hai dato prova che per alimentare costantemente il tuo ego si possono pure lanciare nel tritacarne relazioni personali ed amicizie varie: in nome di cosa, poi?
Ho sempre difeso -e sempre difenderò- un giocatore il cui nome, da oramai tre anni, è menzionato esclusivamente per motivi extra-sportivi e spesso e volentieri puramente politici, non ho alcun problema con le bocche larghe di questa lega, o almeno è così finché queste bocche non vengono messe in movimento per alimentare odio assolutamente gratuito.
Non abbiamo bisogno di uno sportivo del genere, soprattutto in questo periodo storico.
Pertanto, Antonio Brown, la mia porta è ancora aperta, ma ti invito a fare attenzione, che sei veramente vicino a diventare un qualcuno per cui, tristemente e genuinamente, non ne vale più la pena.
A te la palla. O tastiera.

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7for7

7for7 La Settimana in NBA (Ep. 2×24)

Se è vero che tutte le cose belle prima o poi finiscono, e quelle brutte pure, figuriamoci quelle così così. Con l’ultima giornata di regular season appena andata agli archivi e il tabellone dei playoff NBA che si riempie coi pronostici dai quattro angoli del globo, anche 7for7 giunge all’ultima puntata – ma non temete, stiamo già raccogliendo dati per gli attesissimi playoff ignoranti. Settimana lunga quella che vi raccontiamo oggi, quindi partiamo subito. Via!

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NFL

Eligibles, quarta settimana: affari, storie e curiosità dalla free agency

Il draft si avvicina a grandi passi e francamente, il tempo che ci separa dalla fatidica prima chiamata è sempre e comunque troppo: l’incredibile quantità di talento disponibile sembra essere destinata a cambiare drasticamente gli equilibri della lega e soprattutto ci darà mesi di argomenti “freschi” sui quali costruire decine e decine di articoli.
Al momento, le notizie più interessanti riguardano rinnovi contrattuali e, purtroppo, analisi introspettive su Aaron Rodgers ed il suo ego: immagino siate al corrente dell’interessante articolo pubblicato da Bleacher Report nel quale ci viene offerto un dettagliato ed avvilente resoconto sulla situazione Packers e sui vari giochi di potere che hanno limitato quello che per molti è il miglior quarterback di sempre ad un solo Lombardi.

1) La verità delude

Immagino siate al corrente dell’ammirazione che nutro nei confronti di Aaron Rodgers, con ogni probabilità il mio giocatore preferito: uno sconvolgente -ma nemmeno troppo- e dettagliato report di Tyler Dunne, penna del sempre ottimo Bleacher Report, ci ha dipinto un quadro piuttosto inquietante sulla situazione Packers, incentrando la sua analisi sull’ego di Rodgers e del suo ex-allenatore Mike McCarthy.
Quanto leggerete non è bello, soprattutto se avete passato l’ultimo decennio ad ammirare il numero 12 e le sue imprese: Dunne ci mette davanti ad un uomo il cui ego lo ha portato/sta portando a tagliare i ponti con ex-compagni, famiglia e più in generale con chiunque osi mettere in dubbio la sua autorità-barra-intelligenza. Non che McCarthy -allenatore spinto da vari eventi ad un passivo “disinteresse” ed in cerca di costanti attenzioni/gratificazioni- ne sia uscito tanto meglio, ma se non altro essendo disoccupato non avrà puntati contro i riflettori durante tutta la prossima stagione: il povero LaFleur non sembra trovarsi in una posizione facile e se Rodgers non cambierà atteggiamento al più presto c’è il serio rischio che Green Bay sia destinata ad implodere ancora una volta.
Prendetevi una mezz’ora e leggete, ne varrà la pena, in quanto ogni singola parola in cui vi imbatterete altro non è che la sapiente rielaborazione di testimonianze di ex-compagni e membri dello staff: lo ammetto, sono ancora in fase di rifiuto.

2) Missione compiuta

DeMarcus Lawrence ce l’ha fatta: dopo mesi di lunghe e dolorose contrattazioni, il forte defensive end dei Cowboys ha ottenuto il tanto desiderato rinnovo contrattuale, un quinquennale da 105 milioni di dollari di cui ben 65 garantiti.
Il vero capolavoro di Lawrence, però, è stato quello di riuscire a firmare un contratto nel quale nel solo 2019 percepirà più di 31 milioni di dollari -seconda cifra più alta dietro solamente agli astronomici 44 milioni di Matt Ryan-: Dallas ha il talento per ambire al Lombardi e mettere sotto chiave il proprio talento è la cosa più sensata per costruire una vera e propria contender e garantirsi i servigi di un difensore in grado di stravolgere i piani offensivi della squadra avversaria è sicuramente una mossa vincente. Ora sotto con i rinnovi di Dak e Zeke, anche se per quanto riguarda il numero quattro temo -per gli equilibri del roster, non per il giocatore che fino ad oggi ha giocato praticamente “gratis”- che la cifra pattuita sia destinata ad essere difficilmente giustificabile: buon per lui!

3) New Swag Jets

I New York Jets ci credono: dopo aver trovato in Darnold il quarterback del futuro ed aver investito su free agent del calibro di Bell e Mosley, New York ha presentato in pompa magna le nuove divise che, a mio avviso, entrano immediatamente nella top-five della categoria.
Giudicate voi.

https://www.instagram.com/p/Bv2lXAGg6W1/

4) Pretese più che motivate

Russell Wilson nel 2019 è destinato ad essere il dodicesimo quarterback più pagato della lega, con davanti a lui gente come Garoppolo, Mariota, Winston, Flacco, Carr e Foles: siamo davanti ad un’eresia che deve essere corretta il più velocemente possibile, ed i Seahawks sono i primi a saperlo.
A dire il vero ora pure tutto il resto del mondo lo sa, in quanto Russ ha lanciato al proprio front office un ultimatum che scadrà il 15 aprile: Wilson vuole -e ne ha tutto il diritto- essere il quarterback più pagato di sempre e, sebbene qualcuno possa storcere il naso, è utile ricordare che oramai il trend è il seguente, ovvero che ogni rinnovo firmato da un franchise quarterback lo rende -per relativamente poco tempo- il giocatore più pagato della lega, se non della storia.
Con Wilson under center Seattle avrà sempre la mai banale opportunità di giocarsela alla pari -circa- contro chiunque, pertanto non esaudire i suoi desideri non avrebbe alcun senso, soprattutto per una squadra che nelle ultime offseason ha totalmente mutato il proprio DNA ed ha trovato nel numero 3 una magnifica e produttiva costante: rendetelo felice, suvvia.

5) Nuove opportunità

La AAF è miseramente fallita e la NFL non ha perso tempo ad offrire un’opportunità a coloro che si sono distinti durante la sua fugace esistenza: Keith Reaser, ex cornerback degli Orlando Apollos, è stato immediatamente messo sotto contratto dai Kansas City Chiefs, squadra che in secondaria ha immediatamente bisogno di quanto più aiuto possibile.
Al momento già una decina di giocatori ha messo nero su bianco il nuovo capitolo della propria avventura e non mi resta che augurare a tutti loro buona fortuna: ricordate sempre la storia di Kurt Warner.
Mi sembra il caso di condividere con voi le goffe scuse dei piani alti della defunta Alliance, che attraverso un tweet ha chiesto perdono a chiunque sia stato coinvolto in tale fallimento.

6) E Rosen intanto…

…intanto si è presentato all’apertura degli OTAs dei Cardinals: nulla di strano, direte, ma vi invito a prestare attenzione al fatto che normalmente un giocatore “coinvolto in voci di trade” non si presenta quasi mai a tale evento.
“Coinvolto in voci di trade”? Non proprio, in quanto apparentemente i Cardinals finora non hanno imbastito alcuna trattativa per sbarazzarsi della decima scelta assoluta dello scorso draft: molti vedono il matrimonio con Kyler Murray come mera formalità, ma per il momento vale la pena ricordare che gli Arizona Cardinals il proprio quarterback del futuro già lo hanno, e per l’appunto si chiama Josh Rosen. Nella NFL moderna le certezze sono merce rara, ed occorre tenere in considerazione l’ipotesi che tutto questo interesse nei confronti di Murray possa essere un tentativo di spingere qualche squadra disperata a fare follie per garantirsi la prima scelta assoluta.

7) Ora basta

L’ho adorato -nonostante la squadra in cui militava non fosse esattamente la mia preferita- per la sua incredibile produzione in campo e per la quasi fiabesca etica del lavoro, ma adesso Antonio Brown è andato veramente oltre ogni limite: capisco gli attacchi a Roethlisberger, capisco un po’ meno quelli a Tomlin e non capisco minimamente gli attacchi a JuJu, nuova vittima prediletta degli improvvisi attacchi di rabbia del nuovo numero 84 di Oakland.
Guardate questa incredibile serie di tweet, nella quale -come sempre ultimamente- dal nulla Brown ha attaccato l’ex compagno di reparto.

La legittima risposta di JuJu non si è fatta attendere

Antonio, perché stai facendo l’impossibile per essere odiato anche dal tuo più fedele sostenitore? Esclusivamente per questo caso mi rifarò alla più spregevole delle locuzioni usabili nel mondo sportivo: shut up and dribble.

8) Non tutto è da buttare

Le’Veon Bell è stato a lungo oggetto di critiche e dibattiti e molto probabilmente il suo nome verrà tirato in ballo ogni qualvolta un giocatore minaccerà lo “sciopero” di fronte ad un impasse sul rinnovo contrattuale: ciò non è chiaramente il più onorevole dei riconoscimenti, però ora grazie ad un tweet possiamo toglierlo a priori dalla categoria “cattivi compagni”.
Di cosa sto parlando? Di questo tweet nel quale vediamo uno screenshot della chat con James Conner, il suo sostituto agli Steelers.

Nient’altro da aggiungere: Antonio Brown, per favore prendi nota.

9) Un rinnovo scontato ma non troppo

Le squadre vincenti devono poter contare su un kicker perlomeno affidabile -immagino che i tifosi dei Bears abbiano qualcosa da dire a riguardo- ed i Patriots, la squadra Vincente con la “v” maiuscola, lo sanno: non mi sorprende dunque il rinnovo contrattuale dato a Stephen Gostkowski, kicker che per i prossimi due anni tenterà, piazzato dopo piazzato, di aiutare i Patriots a raggiungere altri Super Bowl. Sorprende, però, il fatto che New England abbia aspettato così tanto a mettere il tutto nero su bianco, poiché ad onor del vero negli ultimi tre anni Gostkowski ha concluso la regular season con una percentuale di realizzazione inferiore all’85% in ben due occasioni, mancando qualche extra point cruciale qua e là: senza un suo errore forse New England avrebbe avuto l’opportunità di rappresentare l’AFC al cinquantesimo Super Bowl, giocato e vinto dai Denver Broncos di Peyton Manning.

10) Nuggets!

I Philadelphia Eagles sono forse la squadra più interessata in assoluto ai talenti AAF: Philly ha infatti messo sotto contratto ben due ricevitori -l’ex Vikings Charles Johnson e Greg Ward- e l’intrigante quarterback Luis Perez. Pure gli ignavi Dolphins stanno banchettando sulla carcassa della fu Alliance of American Football e fra le molte firme spicca sicuramente quella dell’ex Packers Jayrone Elliott, pass rusher che ha messo a segno ben 7.5 sacks nella fugace esistenza della lega. Buonissima mossa dei Seahawks che si sono garantiti per il prossimo anno il defensive end Nate Orchard, ex Browns nonché stella della scorsa edizione di Hard Knocks; attenzione ai Patriots, che alla ricerca del successore -di nome- di Rob Gronkowski hanno firmato il talentuoso ma problematico Austin Seferian-Jenkins: classica mossa Patriots, pertanto potrebbe seriamente funzionare!

 

 

 

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NBA

Caro Dirk ti scrivo

Vi avviso: questo non è un normale articolo come quelli che siete abituati a leggere su queste pagine (o su altre). Non può esserlo, perché il giocatore a cui è dedicato non è soltanto un ex MVP di regular season e di finale NBA, il sesto realizzatore di ogni epoca e un pluridecorato campione con un busto nella Hall of Fame di Springfield già pronto per essere esposto. Oltre a tutto questo, Dirk Nowitzki è il motivo per cui oggi, con oltre 40 primavere già nello specchietto retrovisore, il basket NBA è saldamente la mia prima passione sportiva (con la seconda che arriva terza) e il mio cuore di tifoso sanguina letteralmente per i colori dei Dallas Mavericks.

Ho scoperto Nowitzki quasi per caso, quando reso cestisticamente orfano dal secondo abbandono di Michael Jordan ero alla ricerca di un nuovo giocatore per il quale fare il tifo. Durante quella offseason del 1998, la franchigia di Dallas dell’allora proprietario Ross Perot Jr. e guidata in panchina dallo scienziato pazzo Don Nelson decise di fare due cose decisamente controcorrente: sacrificare la sua scelta numero 6 a nome Robert “Tractor” Traylor (pace all’anima sua) per scambiarla con un semisconosciuto lungo proveniente dall’A2 tedesca e andare a prendere da Phoenix un play canadese con un fisico da impiegato del catasto che nei suoi primi due anni nella Lega aveva fatto solo della gran panchina.

Ecco, non ho memoria precisa dello scambio di scelte con Milwakee o della trade con Phoenix, ma ricordo molto bene la prima volta che ho letto i nomi di Dirk Nowitzki e Steve Nash. È stato subito dopo aver visto questa foto.

L’amore spesso non ha un motivo logico, perlomeno non se parliamo di quello a prima vista. Ecco, nel momento in cui ho visto quel sorriso imbarazzato, quell’orecchino al lobo sinistro e quella orrenda pettinatura bionda, per qualche inspiegabile motivo ho sentito scattare dentro di me una scintilla. Da quel momento in poi, per lui e per quell’altro strano ragazzo ossigenato sulla destra avrei sposato la causa dei semi-derelitti Dallas Mavericks, una squadra reduce da un record di 20 vittorie e 62 sconfitte nell’annata precedente e senza una stagione vincente da otto anni. Se non è amore questo…

Ed è così che, a oltre vent’anni da quello storico draft, mi trovo oggi di fronte all’ultima partita di questo semidio teutonico con il numero 41. Questo pezzo è quindi dedicato a lui e contiene una serie di immaginarie lettere che, nel mio cuore di tifoso, vorrei avergli spedito durante il corso della sua straordinaria carriera. Chissà che un giorno non trovi il modo di fargliele arrivare per davvero…

 

Giovedì 15 Aprile 1999

Caro Dirk.

È stata una stagione difficile, lo so. Prima il lockout, che stava quasi per farti cambiare idea sul trasferimento nella NBA ancor prima di cominciare, ma per fortuna Nelson e Perot sono volati fino a Würzburg per dimostrarti quanto si forte la fiducia che la società ripone in te, forse ancor più di quella che tu stesso credi di meritare. Poi gli avversari americani, che sembra quasi stiano facendo il possibile per farti fare brutta figura, quasi volessero dimostrare a tutti che un europeo non potrà mai venire ad insegnare loro come si gioca a basket.

Anche i giornalisti USA non sono stati particolarmente teneri, ti hanno soprannominato “Irk” Nowitzki perchè dicono che la D di Difesa tu non sappia nemmeno come scriverla. Non farci caso, sono sicuro che presto riuscirai a far cambiare idea a tutti. Forse sei un po’ frastornato dai ritmi e la fisicità che caratterizzano questa Lega, ma hai comunque già fatto vedere diverse cose interessanti e mi pare che con quell’altro biondino canadese tu stia sviluppando un buon rapporto. Si vede da come vi guardate in campo, sono certo che avere un amico in squadra potrà aiutarti nelle giornate più difficili. Tieni duro, perché la tua avventura è appena cominciata.

 

Venerdì 11 Maggio 2001

Caro Dirk.

Le cose iniziano a cambiare, no? Quasi 22 punti e oltre 9 rimbalzi di media… dove sono adesso gli espertoni che ti bollavano come “pacco” solo dopo qualche mese? Ora già cominciano a dire che non si era mai visto un giocatore così alto tirare così bene, che sei un potenziale uomo franchigia, etc… Vabbè, lasciamo da parte le polemiche: sono arrivati i primi playoff della tua carriera e hai subito conquistato uno scalpo eccellente.

Gli Utah Jazz di Stockton e Malone solo pochi anni fa facevano sudare sette camicie ai Chicago Bulls di His Airness Michael Jordan, ma li abbiamo (scusa il plurale ma ormai mi sento parte integrante del team ) mandati a casa senza troppi complimenti. Ok, dopo è arrivata la sconfitta contro gli Spurs (mi stanno un po’ sulle palle questi, speriamo di non doverli incontrare mai più) ma di certo i nuovi Mavs stanno cominciando a far paura a molti. Ormai tu, Nash e Finley siete ufficialmente i nuovi Big Three, manca ancora qualche pezzo e poi potremo puntare davvero al bersaglio grosso.

Ah, a quanto pare abbiamo anche un nuovo proprietario. Questo Mark Cuban sembra un tipo simpatico, di certo non è il classico owner ingessato e poi cavolo, sembra che ci tenga davvero. In panchina pare un tifoso invasato, speriamo voglia aprire i cordoni della borsa e sfruttare al massimo il gruppo che si è creato in questi anni. Non so tu ma io ho sensazioni davvero positive riguardo al futuro.

 

Lunedì 16 Maggio 2005

Caro Dirk.

Ho continuato a temporeggiare sperando di poterti scrivere per festeggiare il tuo primo anello di campione NBA e invece… Prima ci si sono messi i Sacramento Kings, che nel 2002 ci hanno buttato fuori prima di suicidarsi in Gara 7 della finale dell’Ovest contro i Lakers. Poi nel 2003, quando dopo aver rischiato di subire una clamorosa rimonta avanti 3-0 al primo turno contro i Blazers ed esserci vendicati sui Kings in Gara 7 di semifinale, un maledetto scontro fortuito con Ginobili in Gara 3 ti ha costretto ad abbandonare anzitempo le finali di conference, lasciando di nuovo il campo libero a quegli insopportabili “cugini” di San Antonio. Quella è stata veramente una sfortuna, sono sicuro che con te in campo gli Spurs non avrebbero avuto speranza. Nel 2004 a rompere le… uova nel paniere sono stati ancora i Kings, che a quanto pare si esaltano quando vedono le maglie dei Mavericks ma poi finiscono sempre per fallire sul più bello (sempre in gara 7, stavolta contro Minnesota).

E infine quest’anno, il 2005. Ecco, questa credo sia stata per te la sconfitta più difficile da digerire. La partenza del tuo grande amico Steve Nash nell’estate scorsa ha lasciato sicuramente un grande vuoto, nel tuo cuore come in quello di tutti i tifosi di Dallas (compreso il mio). Vederlo andare a Phoenix è stata dura, dover ingoiare la sconfitta proprio contro i Suns all’overtime di Gara 6 delle semifinali di conference lo è stato ancora di più. Certo, dal punto di vista individuale in questi quattro anni sei andato veramente alla grande, all’All Star Game hai sempre una maglia che ti aspetta con il tuo nome dietro e sei ormai riconosciuto come uno dei più forti giocatori dell’intera Lega. Ma so che a te non interessano più di tanto i riconoscimenti individuali: tu vuoi vincere, vuoi portare i Mavericks al primo titolo della loro storia. Abbi fede e ce la faremo, è solo questione di tempo.

 

Sabato 28 Aprile 2007

Caro Dirk.

Ti chiedo scusa. Non ho avuto abbastanza cuore per scriverti dopo la sconfitta nelle NBA Finals del 2006, quando a pochi metri dalla terra promessa Wade, Shaq e Riley (e gli arbitri) ci hanno strappato di mano quel trofeo che sembrava così vicino. Per notti intere non sono riuscito a dormire, frustrato da quelle quattro sconfitte consecutive il cui ricordo è ancora così duro da sopportare per me, figuriamoci per te.

Lo faccio però adesso, quando è ancora fresca la delusione per l’incredibile upset subito al primo turno da quella banda di pazzi dei Golden State Warriors di Baron Davis, Stephen Jackson e del nostro ex coach Don Nelson. E chissenefrega del titolo nel Three Point Contest all’All Star Game, della Gara 7 di semifinale vinta finalmente contro gli odiati Spurs, dei 50 punti in Gara 5 della finale di conference contro Phoenix, del record di franchigia di 67 vittorie, del primo quintetto NBA e persino del titolo di MVP della Lega. Nessuno di questi traguardi credo che al momento ti interessi granché, perché avrai in mente soltanto le cocenti delusioni subite ai playoff in questi due anni. Ecco, oggi ti scrivo per dirti soltanto una cosa: NON MOLLARE!

Non lasciarti prendere dallo sconforto, perché per quanto possa bruciare questa eliminazione non è la fine. Prenditi un po’ di tempo per staccare dalla pallacanestro, magari fai un viaggio (ho un amico che è stato per un mese in giro zaino in spalla in Australia ed è tornato completamente rigenerato, potrebbe essere un’idea) e per qualche settimana cerca di non pensare al basket. Ma quando tornerai, devi gettarti tutto alle spalle e ricominciare a lottare. Nash se n’è andato (anche lui ha vinto un titolo di MVP della Lega ma aspetta ancora il suo primo anello), Finley pure, resti solo tu a guidare questo gruppo e quindi hai la responsabilità di rialzarti per primo e riprendere a tirare nella direzione giusta. Noi ti aspettiamo: torna e sii il leader e il vincente che dentro di te sai di poter essere.

P.S. Tanto per essere chiari: ODIO AVERY JOHNSON!!! È un insopportabile incapace e se lo incontrassi per strada lo metterei sotto con la macchina. Spero solo che Cuban lo cacci subito a pedate e che prenda un allenatore come si deve prima che sia troppo tardi.

 

Lunedì 13 Giugno 2011

Caro Dirk.

Non ho parole. Seriamente, sono passati diversi minuti dal suono della sirena finale di Gara 6 delle NBA Finals a Miami e ancora non riesco ad emettere alcun suono, la gola bloccata da tutte le emozioni vissute in questi ultimi quindici giorni. Ma ti voglio scrivere subito, prima che questo turbinio si attenui per trasformarsi nel sorriso ebete che so mi accompagnerà da qui alle prossime settimane.

Quello che avete fatto in queste Finali è stato eccezionale. La straordinaria rimonta in gara 2, sotto di 15 punti a poco più di 7 minuti dal temine, quella in Gara 4 con i tuoi canestri decisivi nel quarto quarto nonostante la febbre a 38, l’esplosione di Terry in Gara 5 e le sue triple in faccia a LeBron, il super primo tempo dei tuoi compagni in Gara 6 e il tuo sigillo nel finale.

Hornets, Nuggets e Spurs: negli anni precedenti queste tre squadre hanno nuovamente spento sul nascere i nostri sogni di gloria, ma soltanto perché non eravamo ancora pronti, perché i pezzi del puzzle non erano ancora tutti perfettamente al loro posto. Blazers, Lakers, Thunder e Heat (che fantastica vendetta sportiva!) sono stati invece le tappe del percorso che ci hanno condotto finalmente al tanto sospirato anello, il primo per te, per la franchigia, per tutti.

Jason Terry (lui e il suo tatuaggio del Larry O’Brian Trophy, fatto profeticamente proprio qualche giorno prima della partenza di questa stagione) Shawn Marion, Tyson Chandler, Jason Kidd, JJ Barea, Ian Mahinmi, DeShawn Stevenson, Peja Stojakovic, persino quel pazzo assassino di Brian Cardinal e soprattutto quel fottuto genio di Jim Carr… ehm, Rick Carlisle. Ognuno di loro ha portato il suo personale contributo in questa cavalcata vittoriosa, ma nessuno mai potrà mettere in dubbio che senza i tuoi meravigliosi playoff non saremmo qui a festeggiare questo incredibile titolo, che se tu non fossi un signore potresti sbattere in faccia ad un sacco di persone.

In faccia ai bookmakers, che già ci vedevano sfavoriti al primo turno contro i Balzers. In faccia agli analisti, che credevano che i Lakers avrebbero fatto un sol boccone di noi “perdenti”. In faccia alla gioventù dei Thunder, che credevano sarebbe bastata solo la freschezza delle loro gambe per superare una banda di vecchietti. E in faccia ai Big Three di Miami, che recitavano “Not five, not six, not seven…” ma che ora siedono inconsolabili nei loro spogliatoi.

In quello stesso palazzetto, solo pochi metri più in là, ci sono le tue lacrime. Lacrime di gioia, di soddisfazione ma anche di liberazione, perché ora finalmente nessuno potrà mai più permettersi di affibbiarti quell’odiosa etichetta di “loser con cui i supposti esperti classificano i grandi giocatori mai in grado di iscrivere il loro nome nell’albo d’oro della NBA. Come se in uno sport di squadra potesse essere un singolo giocatore, per quanto forte, a determinare la vittoria di un campionato o come se il fatto di non aver mai vinto un titolo potesse trasformare automaticamente in perdente un dieci volte All Star da oltre 20.000 punti in carriera.

Con questo anello e questo titolo di MVP delle finali ti sei tolto davvero un gran peso dalle spalle e ora è il tempo di festeggiare. Perché, come cantavano i Queen, oggi finalmente “We are the Champions”. 

 

Martedì 15 Maggio 2014

Caro Dirk.

Non ti scrivo da un po’. Dopo l’orgia di emozioni del 2011 sono stati anni un po’ sottotono, complice lo smantellamento del nucleo della squadra (prima Chandler e Barea, poi Kidd, Marion e Terry) e un nuovo ciclo che stenta a decollare. Tu continui a produrre prestazioni di assoluto livello (siamo a 26.710 punti and counting) ma il tempo ovviamente passa anche per te e sono arrivati i primi infortuni, dovuti ad un chilometraggio complessivo che comincia a farsi piuttosto elevato, e i risultati della squadra ne hanno ovviamente risentito.

Un cappotto contro OKC al primo turno nel 2012, prima di una stagione 2013 che si è conclusa addirittura senza playoff dopo oltre 12 anni. Quest’anno nonostante le difficoltà abbiamo fatto sudare le proverbiali sette camicie ai soliti Spurs, poi campioni NBA sostanzialmente in carrozza, per cui non credo ci sia nulla di cui rimproverarsi. Oggi hai firmato un rinnovo contrattuale di cui nessuno ha mai dubitato e che ti legherà ai Mavericks fino alla fine della tua straordinaria carriera. Mark Cuban ha detto che sarebbe disposto a rinnovarti anche fino a 73 anni, non posso che essere d’accordo con lui.

 

Martedì 07 Marzo 2017

Caro Dirk.

Che dire di questi ultimi tre anni? I risultati di squadra non sono stati entusiasmanti: due eliminazioni al primo turno da Rockets e Thunder e quest’ultima stagione conclusa con il primo record perdente dai tempi del tuo anno da rookie. Anche le prospettive per il prossimo futuro non sono un granché, siamo in fase di rebuilding e temo ci rimarremo per un po’. Ma dal punto di vista personale hai vissuto questo triennio in una immaginaria corsia di sorpasso, sfrecciando accanto alle più grandi leggende che abbiano mai calcato i parquet della Lega. L’11 Novembre 2014 hai superato il grande Hakeem Olajuwon al nono posto nella classifica dei realizzatori di tutti i tempi, diventando contemporaneamente il primo non-americano per punti segnati nella storia della NBA.

Il 26 dicembre dello stesso anno è stato il turno di Elvin Hayes, mentre il 5 Gennaio 2015 è toccato a Moses Malone finire nel tuo specchietto retrovisore. Entro la fine della stagione hai sfondato quota 28.000 punti e 10.000 rimbalzi, mentre il 23 Dicembre del 2016 persino il grande Shaq ha dovuto cederti la sua posizione in classifica. In mezzo a questa corsa verso l’immortalità cestistica hai persino trovato il tempo, a 37 anni suonati, di piazzare un quarantello contro i Portland Trail Blazers. Roba da superuomini…

Ma il momento più bello di questo triennio è stato sicuramente quello vissuto il 7 Marzo 2017, quando con l’ennesimo “tiro della cicogna” hai superato quota 30.000 punti, con le lacrime sugli spalti del tuo mentore Holger Geschwindner a mischiarsi a quelle di tutti i tuoi tifosi in giro per il mondo. Trentamila… un numero che si fa fatica ad immaginare e che solo tu e altri sei eletti siete stati in grado di superare. Complimenti leggenda!

 

Mercoledì 28 Febbraio 2018

Caro Dirk.

Siamo finiti nella merda per ben due volte in una sola settimana. La prima è stata quando Mark Cuban ha confessato di aver detto ad alcuni tra voi giocatori che da qui alla fine della stagione perdere sarebbe stata la migliore opzione possibile. Questo endorsement al tanking è stato gradito il giusto dai piani alti della Lega e Mark ha potuto ampliare la sua collezione di multe con un Gronchi Rosa da 600.000 dollari. Immagino come la cosa abbia potuto far piacere anche a te, che la parola “perdere” la apprezzi quanto la sabbia nel letto.

Ma il casino vero è legato al lungo reportage di Sports Illustrated, nel quale diverse donne hanno espresso pesanti accuse nei confronti dell’ex amministratore delegato dei Dallas Mavericks e di altri esponenti della franchigia. Si va dalle richieste di rapporti sessuali, ai commenti sessisti, al palpeggiamento durante le riunioni. In pratica hanno definito gli uffici dei Mavs “Animal House in the real life“.

In una tua intervista hai definito la scoperta di questo lato oscuro della tua franchigia come “deludente e straziante”, esprimendo nel contempo il tuo supporto a Cuban nel suo compito di scovare tutti i colpevoli e allontanarli al più presto. Posso immaginare che chi come te ha dato anima e corpo per questa franchigia possa sentirsi tradito, ma tu e i tuoi compagni presenti e passati non avete nessuna colpa, perché le stesse accusatrici hanno precisato come i rapporti con i giocatori e lo staff tecnico siano stati sempre impeccabili e permeati dal massimo rispetto. Questa vicenda rischia di sporcare per sempre l’immagine pubblica della nostra squadra, speriamo solo che possa essere fatta chiarezza e che i vengano tutti individuati e allontanati il più presto possibile.

E dire che in estate hai persino scelto di rinunciare ai 25 milioni che ti spettavano dall’accordo per questa stagione, accettando di trasformarlo in un contratto da 10 milioni in due anni con il fine unico di consentire alla franchigia di avere lo spazio salariale necessario per cercare di migliorare il roster (cosa che peraltro non è avvenuta). Non sono un enciclopedista, ma non credo che nella storia dello sport siano esistiti molti giocatori che hanno rinunciato ad una quindicina di milioni di dollari soltanto per amore verso la propria squadra.

Ai giorni nostri, soprattutto in un certo sport in cui si prende a calci una palla, si abusa molto spesso del termine “bandiera”: bastano un paio di baci alla maglia sotto la curva e l’etichetta è bella che assegnata. Peccato solo che nel mercato successivo molte di queste bandiere tendano a dimenticare i colori sociali della suddetta maglia, per concentrarsi più attentamente sul colore (e la quantità) delle banconote che gli vengono offerte. Ma tu… tu sei diverso. A leggere queste brutte notizie spero non ti sia pentito del tuo nobile gesto, perché puoi star sicuro che quanto hai fatto non sarà dimenticato. Non dalla Mavs Nation. Non da me.

 

Venerdì 11 Gennaio 2019

Caro Dirk.

Pochi minuti fa ho realizzato un sogno. Grazie al preziosissimo pass stampa che scrivere per Play.it Usa mi ha messo a disposizione, ho potuto incontrarti, salutarti e stringere la mano negli spogliatoi del Target Center di Minneapolis dopo la partita tra Mavericks e Timberwolves.Mani due spugne, salivazione azzerata, manie di persecuzione, miraggi.” Questa coltissima citazione dal primo film di Fantozzi descrive esattamente la mia situazione prima di chiederti se potevi fermarti per una foto. La mano tremava talmente tanto che lo scatto è venuto una vera schifezza, ma non mi serve una foto per fissare per sempre nella mia mente quel momento.

Tu eri inca**ato nero, dopo una partita chiusa con uno zero su otto dal campo, ma hai comunque accettato di fermarti e di sorridere all’obiettivo del mio cellulare. Grazie davvero, perché capisco quanto questa tua ultima stagione si stia rivelando difficile da portare a termine. Prima il problema alla caviglia che ti ha tenuto fermo fino a dicembre, poi un ritorno in campo molto difficile per una condizione fisico-atletica che oggettivamente non ti rende più in grado di competere ai livelli a cui eri abituato.

Sono ormai settimane che il pubblico di tutti i palazzetti della NBA ha deciso di celebrarti durante il tuo ultimo giro di giostra, ma nella sua ingenuità il tifoso medio non capisce che gli “Oooh” di entusiasmo quando tiri e le standing ovation quando segni un canestro non sono quello che un campione come te vorrebbe ricevere in questi momenti. Sono sicuro che avresti voluto che quest’ultima stagione assomigliasse molto di più a quella di Tim Duncan che a quella di Kobe Bryant, ma nel corso di oltre vent’anni anni di NBA ti sei fatto talmente amare e rispettare anche dai tifosi avversari che oggi non possono proprio rimanere impassibili di fronte all’ultima occasione che avranno per vederti in azione sul parquet.

Mi viene in mente una famosa canzone dei Coldplay, “Viva la vida”, la cui prima strofa recita così:

“I used to rule the world
Seas would rise when I gave the word
Now in the morning I sleep alone
Sweep the streets that I used to own”

“Ero solito dominare il mondo
I mari si sollevavano quando io lo chiedevo
Ora dormo da solo al mattino
Spazzando le strade che una volta erano mie”

Ecco, credo che nel corso di quest’ultima stagione ti sia capitato varie volte di provare questa sensazione. Credo succeda a tutti quelli che sono stati dei dominatori nel loro sport, abituati nel corso della loro carriera ad essere dei protagonisti e ad essere guardati dagli altri con rispetto, timore, ammirazione.

Ma ricorda che, anche se oggi ti sembra di così difficile stare in campo contro tutti questi giovani, tu potrai sempre portarti dietro la consapevolezza di aver cambiato la storia di questo sport. Perché se vent’anni fa qualcuno avesse detto che un sette piedi tedesco di Würzburg proveniente dall’A2 tedesca sarebbe diventato campione NBA, MVP della Regular Season, MVP delle Finals e sesto marcatore di tutti i tempi, credo sarebbe stato internato di corsa nel primo manicomio disponibile.

Invece è successo. Invece sei arrivato in NBA e hai rivoluzionato la storia del basket. Invece sei diventato un modello a cui altre leggende come LeBron, Wade, Durant, Davis si sono ispirate per modellare il loro gioco. Invece hai fatto innamorare cestisticamente non solo me, ma centinaia di migliaia di persone. Invece… Invece sei stato Dirk Nowitzki. 

 

Mercoledì 10 Aprile 2019

Caro Dirk.

Siamo arrivati all’ultimo capitolo della tua straordinaria storia. Questa notte (come hai annunciato tu stesso ieri sera prima di scriverne TRENTA sul tabellino di addio al tuo pubblico di casa) chiuderai la tua carriera di giocatore professionista di basket e lo farai, oltre a tutto il resto, da leader assoluto di punti, rimbalzi, stoppate, tiri da due, tiri da tre, tiri liberi, partite e minuti giocati nella storia dei Dallas Mavericks.

Prima di te (e forse nemmeno dopo) nessun giocatore è mai stato così indissolubilmente riconosciuto come il volto e l’anima di una franchigia. Tu SEI i Dallas Mavericks e pensare a questa squadra senza di te è praticamente impossibile. Spero che il tuo futuro preveda un ruolo all’interno dell’organizzazione, non sarà la stessa cosa ma sarebbe comunque bello continuare a vederti al palazzetto di Dallas, seppur in borghese.

Qualche settimana fa hai superato anche l’immortale Wilt Chamberlain e concluderai quindi la tua straordinaria carriera al sesto posto assoluto tra i migliori realizzatori di tutti i tempi, con oltre 31.540 punti (dipende da quanti ne farai stasera nella tua ultima partita, che per ironia della sorte giocherai sul parquet degli arcirivali San Antonio Spurs) realizzati in ventuno, lunghissime e meravigliose stagioni.

Lasci una squadra che farà fatica a colmare un vuoto fatto non soltanto di punti e rimbalzi, ma soprattutto di cuore, carattere e leadership. Per fortuna sembra che proprio quest’anno abbiamo pescato al draft un ragazzo decisamente speciale, con il quale (non a caso) sembra tu abbia sviluppato subito una bella amicizia e che ti vede come suo mentore e maestro. Questo giovane sloveno è pronto a raccogliere la tua eredità e per aiutarlo la dirigenza ha portato a Dallas anche un altro giocatore europeo, un lettone che palesemente si è ispirato a te per modellare il suo gioco e che potrebbe essere uno di quei giocatori che definiscono un’intera generazione.

Ecco, Luka Doncic e Kristap Porzingis hanno tutto quello che serve per riportare questa franchigia nell’olimpo della NBA, ma è probabile che durante il percorso avranno bisogno di qualche consiglio, quindi per favore stai vicino ad entrambi e aiutali a rimanere sulla retta via.

Per il resto che cosa posso dirti? Nelle lettere che ti ho inviato in questi ventuno anni trovi un compendio delle emozioni che mi hai fatto provare: rispetto, ammirazione, frustrazione, rabbia, gioia, felicità, ma soprattutto amore. Amore per il gioco del basket, per i Dallas Mavericks e per quel tuo tiro fatato che così tante volte ha accarezzato le reti dei canestri avversari.

Domani forse non sarai più un giocatore di basket, ma di certo nella mia mente il tuo ricordo non invecchierà mai. Grazie… di tutto.

Tuo per sempre, Giorgio

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Eligibles, terza settimana: affari, storie e curiosità dalla free agency

Diventa dura portare avanti una rubrica nel momento in cui le notizie più ghiotte riguardano per la quasi totalità ritiri, ma arrivati a questo punto non ha assolutamente alcun senso fermarsi, in quanto gradualmente ogni roster sta assumendo una forma che verrà poi ridefinita al draft, l’evento che fra poco più di un mese ci darà il primo vero assaggio di NFL: pertanto, per non arrivare alla grande notte di fine aprile impreparati, vi conviene non perdervi nemmeno un episodio di Eligibles, anche se pensandoci con più lucidità, con una semplice scrollatina su Twitter potreste ricavare altrettante informazioni impiegandoci un centesimo del tempo che ci mettereste a leggere tali notizie in queste confuse righe.

1) Un ritiro sottovalutato

Mi piace passare del tempo su Wikipedia a spulciare fra le statistiche ed i riconoscimenti individuali di vari giocatori e questa settimana, dopo il ritiro di Jordy Nelson, una breve incursione sulla sua pagina era assolutamente d’obbligo: con sdegno ho notato che il numero 87 dei Packers è stato convocato ad un solo Pro Bowl, nel 2014, anno in cui ricevette per più di 1500 yards e dieci touchdown. In dieci stagioni Nelson è andato sopra quota mille yards in “sole” quattro occasioni, ma in questo sfavillante poker ha in media ricevuto per quasi 1350 yards e 12.5 touchdown: questi sono numeri da All-Pro, cari lettori.
Ciò che probabilmente ha reso possibile questo abominio è la consistenza del giocatore e la calma della persona in questione, poiché Nelson non è mai stato al centro di scandali, dispute contrattuali o comportamenti sopra le righe: Nelson era semplicemente un vero professionista che avrà modo di trovare il riconoscimento che merita all’interno di quella struttura Packers con la quale nel 2010 arrivò sul tetto del mondo.

2) Un altro ritiro eccellente

Sette convocazioni al Pro Bowl, nove volte inserito in un Team All-Pro e maglia da titolare nella squadra ideale dello scorso decennio: sto sicuramente parlando di un Hall of Famer, no?
No, sto parlando di Shane Lechler, senza ombra di dubbio il miglior punter della nostra generazione: dopo essere stato messo alla porta da Houston lo scorso agosto, Lechler ha pazientemente aspettato una chiamata, non arrivata, per tutta la scorsa stagione fino ad arrivare a convenire che fosse meglio appendere gli scarpini al chiodo.
Troverà un posto a Canton? Molto difficile, in quanto nella storia NFL l’unico punter ad indossare una giacca dorata è il leggendario Ray Guy, il cui palmares ad onor del vero è decisamente simile a quello del buon Shane: l’unica differenza, però, risiede nel numero di Super Bowl vinti, in quanto il tre a zero in favore di Guy ci fa intendere che molto probabilmente, quando arriverà il momento di discutere il suo caso per Canton, i vari votanti punteranno il dito contro tale mancanza. Agli occhi della nostra redazione, però, Lechler è sicuramente un Hall of Famer: magra consolazione, ma comunque consolazione!

https://www.instagram.com/p/Bvoi383n19x/

3) Prima o poi doveva succedere

Non che Jordan Howard non piacesse a Matt Nagy, anzi, è che proprio il suo modo di giocare non si adattava all’idea di football predicata dal Coach of the Year, che ha preferito affidare le chiavi del backfield al meno fisico ma decisamente più dinamico e duttile Tarik Cohen: le voci che ci raccontavano di Chicago alla disperata ricerca di un partner per finalizzare una trade più che annunciata si sono trasformate in realtà la scorsa settimana, quando Howard è stato spedito a Philadelphia in cambio di una scelta al sesto giro che però potrebbe trasformarsi in una al quinto a patto che succedano cose di cui francamente non sono a conoscenza. Howard si inserirà in uno dei backfield più popolosi dell’intera NFL -Smallwood, Clement, Sproles e Adams vorranno tutti la loro parte- con però una concreta possibilità di diventarne il leader viste le caratteristiche tecniche e lo schema di Philadelphia.

4) Iperattività

Non c’è che dire, gli Oakland Raiders si stanno indubbiamente rivelando essere fra i più grandi protagonisti di questa offseason e posso addirittura arrivare a dirvi che quest’anno Eligibles senza un punto dedicato ai Raiders non sarebbe Eligibles: apparentemente sempre con le mani in pasta, Mayock e Gruden zitti zitti si sono garantiti le prestazioni di due giocatori che al momento sembrano destinati ad una pressoché indiscussa maglia da titolare, ovverosia il runningback Isaiah Crowell ed il middle linebacker Brandon Marshall. Considerata l’incertezza attorno al futuro di Lynch, garantirsi un halfback in grado di gestire senza problemi carichi di lavoro fra le 15 e 20 portate ad allacciata rientra senza dubbio nella categoria “buon affare”, anche se personalmente sono più intrigato dall’acquisizione di Marshall, in quanto prima di tutto si sono garantiti un buonissimo linebacker che eccelle nella sempre più importante difesa sui lanci e, fatto non marginale, un veterano in grado di dare un po’ di stabilità ad un reparto ricolmo di incertezze e scommesse.

5) Pesce d’aprile?

Guardate cos’ha combinato Sean McVay a Kliff Kingsbury, nuovo allenatore di quegli Arizona Cardinals che incroceranno due volte a stagione i campioni in carica NFC: visto da tutti come “il nuovo McVay” -anche se ogni allenatore bianco sotto i quaranta viene definito così-, Kingsbury è stato vittima di questo scherzo da parte del “mentore”.

https://www.instagram.com/p/BvuF-A0g2vp/

Lascio decidere a voi se ciò faccia ridere o meno.

6) Pesce d’aprile parte due

Poteva l’MVP dell’Internet, Tom Brady, non partecipare alla festa creata per veri burloni come lui?
Non diciamo fesserie!

https://www.instagram.com/p/BvuI2nzAS8d/

Potevi simularla un po’ meglio però, caro Tom.

7) Un po’ di giustizia, finalmente

Per motivi sconosciuti ai più, C.J. Anderson prima non è stato rinnovato dai Rams e poi, ancora più assurdo, ha passato un mese senza praticamente ricevere telefonate o offerte: considerando il suo curriculum di tutto rispetto e la brillantezza mostrata lo scorso dicembre a Los Angeles, era impossibile trovare una spiegazione razionale al perché un giocatore del genere fosse ancora disoccupato.
Accortisi dell’opportunità, i Detroit Lions non ci hanno pensato due volte e lo hanno messo sotto contratto per il prossimo anno, anno in cui con ogni probabilità farà da gregario al promettente Kerryon Johnson, andando probabilmente a rubargli portate nei pressi della goal line: siamo appena ad aprile, non ha senso iniziare a ragionare in termini di fantasy football ora… vero?

8) È stato… bello?

Con una sana dose di dispiacere e con assolutamente la benché minima sorpresa, la AAF ha ufficialmente chiuso i battenti: considerando che tale rischio si era presentato già dopo il primo weekend di gioco, è quasi un miracolo che tale campionato sia riuscito a trascinarsi fino ad inizio aprile, o se volete vederla in senso contrario, fino a meno di un mese dalla finale. Non discuterò qua le motivazioni economiche e le cifre che hanno portato al patatrac, mi limiterò a fornire quella che credo essere la spiegazione più ovvia ed appropriata dietro tale fallimento: a nessuno interessa veder giocare una squadra condotta da un quarterback fuori dalla NFL da un paio di stagioni, protetto da una linea d’attacco assolutamente non in grado e circondato da skills player che ad ogni drop ci ricordano perché non siano riusciti a trovare spazio in National Football League.
Senza stelle ed appeal come si può vendere un prodotto del genere?

9) Huncho Game 2019

Come lo scorso anno, Quavo -membro dei fantastici Migos- ha organizzato per il proprio compleanno una partitella di football con amici, colleghi e superstar NFL varie: fra gli invitati troviamo Ric Flair, Saquon Barkley, Alvin Kamara, Von Miller, Julio Jones, Nosh Norman ed Eric Reid.

https://www.instagram.com/p/BvuQ6REhrdG/

An sì, c’era pure Colin Kaepernick: nemmeno noi ci dimentichiamo di lui.

10) Nuggets!

Duke Johnson, uno fra i migliori runningback sul terzo down della lega, ha chiesto al front office di Cleveland di essere ceduto a qualsiasi altra squadra abbia un posto per lui: con Hunt e Chubb probabilmente Johnson non avrebbe visto molto il campo. Interessante scambio fra Browns e Chiefs, che hanno finalizzato una trade che porterà Emmanuel Ogbah a Kansas City e Eric Murray a Cleveland, dove probabilmente avrà l’opportunità di contendersi una maglia da titolare visto il buco creatosi con la cessione di Peppers. Gli insaziabili Raiders hanno messo sotto contratto Luke Willson, ex Lions e Seahawks che molto probabilmente spenderà la maggior parte dei propri snaps a bloccare per il runningback di turno.

 

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Celtics – Pacers: Playoffs Preview

La partita tra i Pacers ed i Celtics è quasi sicuramente una preview del primo turno dei playoffs. Le due compagini infatti termineranno la stagione rispettivamente al quarto e quinto posto della East Conference: rimane da decidere in quale ordine. Le due squadre infatti si accingono a questo match con un record 45-31 per Indiana, 44-32 per Boston: in gergo americano, Boston “one game behind” Indiana. La compagine che vincerà questo sprint finale si aggiudicherà il diritto di ospitare una eventuale gara 7 sul parquet di casa.

Atmosfera da playoffs al Garden!

Dunque, da un lato l’interesse per questa partita è dovuta al suo peso nell’immediato futuro di queste due squadre. Dall’altro – per via della alta posta in gioco – è lecito aspettarsi che entrambe le compagini daranno il massimo, il che rende il match un’indicazione affidabile di ciò che vedremo nei playoffs. Una serie che in teoria i Celtics dovrebbero vincere piuttosto facilmente, ma visto l’andazzo in quel di Boston, d’un tratto il fattore campo diventa forse l’elemento determinante nel decidere chi passerà il primo turno.
I Pacers – va riconosciuto – hanno sopperito alla perdita di Oladipo con tanta grinta e voglia di sacrificio: un po’ ci ricordano i Celtics della scorsa stagione. I Green quest’anno hanno avuto una stagione veramente difficile, e praticamente tutti – giocatori, tifosi e stampa – non vedono l’ora che inizino i playoffs. E’ realmente difficile riassumere la stagione dei Celtics. Un’altalena tra periodi in cui si perde, si gioca male e i giocatori se le mandano a dire tramite i microfoni del dopo-partita, e periodi in cui il tifoso più ottimista vuole credere che il peggio è passato e che d’ora in poi sarà tutto come ci si aspettava ad inizio stagione. Ricordate quando i Celtics avevano finalmente messo a tacere tutti i malumori interni su quel volo verso la West Coast? Quando avevano battuto i Warriors di oltre 30 punti, vinto a stento contro Sacramento, battuto la formazione summer-league dei Lakers e perso contro i Clippers di 25 punti? Ecco, appena si cominciava a sperare che si iniziava a fare sul serio, che il terzo posto nella conference era a tiro, i Celtics ne perdono quattro di fila contro Nuggets, 76ers, Hornets e Spurs. E come da copione, appena si ricomincia a perdere, ricominciano anche i malumori ed i battibecchi interni: addio a tutti i “volemose bene” del tanto chiacchierato west coast trip. Kyrie dopo la sconfitta contro Charlotte ad esempio se la prende chiaramente con il coach Stevens, lamentandosi del fatto che Kemba Walker andava raddoppiato e trappato “come fanno tutte le altre squadre nella NBA”. Anche sul campo ritornano le occhiatacce, i rimproveri – per lo più verso il capro espiatorio Jaylen Brown. Riguardo Brown, per tutta la stagione ci siamo domandati il perché di tanta discordia con i compagni ed – ultimamente – coach Stevens. Si, perché Brown ha visto i suoi minuti diminuire costantemente, nonostante negli ultimi due mesi si potrebbe dire che è stato costantemente uno dei giocatori migliori in campo.

Al Horford

Eppure Stevens continua a farlo giocare poco, a levarlo in momenti chiave, anche quando sembra sia l’unico con la voglia di impegnarsi un minimo in difesa. E veniamo al punto dolente di questa stagione, la difesa. I Celtics fino all’anno scorso erano una delle squadre migliori della NBA in fase difensiva. Quest’anno? Not so much. Visivamente, risulta evidente la mancanza di “effort” a tratti da parte un po’ di tutti i giocatori in campo. Anche quando sembra che ci sia l’impegno e la voglia di fare, ci si rende poi conto che spesso si tratta una voglia di giocata individuale piuttosto che cercare la giocata intelligente per il bene ultimo della squadra. Ad esempio, troppo spesso si azzarda nel tentativo di rubare palla o si collassa in raddoppio lasciando vere e proprie autostrade libere sotto canestro. Ma è ormai chiaro che i problemi difensivi vanno ben oltre l’impegno dei singoli, è una crisi sistemica dove gli schemi non danno i risultati sperati o forse semplicemente i giocatori hanno perso fiducia nello stile di gioco dettato da Stevens e tentano di improvvisare e tentare la giocata eroica individuale.
Tanto si è parlato e scritto per tentare di razionalizzare e decifrare questa edizione dei Celtics 2018/19 – tanto blasonata ad inizio stagione – che ha finora deluso le aspettative come poche altre squadre nel mondo dello sport americano. Da semplice osservatore che ha guardato religiosamente ogni partita e che ha avuto anche la fortuna di andare negli spogliatoi in qualche dopo partita – penso che i problemi più grossi siano iniziati durante l’AllStar Break, quando da un lato Kyrie Irving si è rimangiato il proposito di inizio stagione di firmare con i Celtics a lungo termine – “ask me July first“, la risposta stizzita ai cronisti in quella trasferta contro i Knicks. Dall’altro, i trade rumors per Antony Davis secondo cui i Danny Ainge – GM dei Celtics – era pronto a cedere praticamente tutti i giovani – incluso Tatum – per acquisire “The Brow“, anche se solo per una stagione. Il risultato è una squadra che non è più squadra, ma una collezione di individui, ognuno focalizzato a metter su numeri e statistiche per garantirsi un futuro migliore in questo panorama così incerto. Pensateci un attimo, giocatori come Tatum e Brown – 21 e 22 anni – che d’un tratto scoprono che il loro cosiddetto “leader” – Kyrie – probabilmente abbandonerà la nave a fine stagione e la società stessa potrebbe spedirli verso New Orleans quest’estate: è difficile aspettarsi che questi due ragazzi possano continuare a giocare al massimo e per il bene della squadra in una situazione del genere. La speranza di un po’ tutti è che i Celtics arrivino ai playoffs in fase positiva, e magicamente possano mettersi alle spalle tutto questo trambusto iniziando i playoffs come se fosse una nuova stagione. Uno scenario non impossibile, ma che partita dopo partita diventa sempre meno probabile.

La partita contro Indiana è stata sicuramente una boccata di ossigeno per una tifoseria assetata di vittorie e motivi per sentirsi un po’ meno pessimisti. Una partita a tratti bella, dove comunque era evidente la fatica di entrambe le squadre in fase difensiva. Riportiamo di seguito i dettagli del match, quarto per quarto.

Celtics in casacca bianca, in campo iniziano: Baynes, Smart, Irving, Tatum, Horford.
Pacers in uniforme grigia, il quintetto titolare: Collison, Young, Matthews, Turner, Bogdnanovic

Primo Quarto

I primi punti sono di Baynes sotto canestro su assist di Kyrie. Irving subito dopo mette una tripla dall’angolo. Poi ancora Kyrie e Horford, partenza a razzo per Boston 9-1, timeout Pacers dopo appena 2 minuti e 18 secondi di gioco. I Celtics sono partiti decisamente col piglio giusto: tanti movimenti senza palla aprono varchi sotto canestro per lay up facili. Dopo 6 minuti gioco coach Stevens butta dentro Morris al posto di Horford. E’ evidente che Horford sia ancora sotto “minutes restriction“. Poco dopo dentro Hayward, fuori Tatum, Brown dentro per Smart. A 5 minuti dalla fine del primo quarto, in campo Irving, Brown, Morris, Hayward e Baynes. Il pubblico sembra ingaggiato in queste fasi iniziali: brontola non poco per un paio di falli dubbi chiamati contro I Celtics. A tre minuti dalla fine, Boston ha un po’ rallentato dopo la partenza fulminante, Indiana sembra invece aver trovato un po’ di sicurezza: 22-17 Celtics. Al ritorno dal timeout, dentro di nuovo Horford al posto di Baynes. Horford infiamma immediatamente il pubblico con un blocco su Sabonis ed un layup in contropiede subito dopo. Finalmente si vede anche Rozier in campo, dentro a due minuti dalla fine al posto di Kyrie. Horford ancora in evidenza con un bel follow up dopo un layup mancato di Brown in fase di contropiede. Il primo quarto si conclude con i Celtics avanti 35-25. Horford tuttofare 6 punti, 3 rimbalzi e 2 assist, Kyrie e Baynes chiudono il quarto con 7 punti a testa. Tutto bene finora per Boston, anche se ci ha abituato a queste belle partenze per poi collassare nell’ultimo quarto. Staremo a vedere.

Secondo Quarto

Il gioco riprende con i Celtics che schierano Brown, Rozier, Morris, Hayward e Horford. I Pacers rientrano con Joseph, Sabonis, Evans, McDermott e Leaf. Rozier ancora una volt in difficoltà: inefficace in fase di attacco e “soft” in fase difensiva dove troppo spesso concede il layup facile e l “and one” all’avversario di turno. Risultato? I Pacers nel giro di 2 minuti e mezzo vanno si riportano a 3 punti, 38-35 Celtics, timeout Stevens. In attacco i Celtics continuano ad inanellare palle perse concedendo canestri facili in fase di contropiede: Indiana comincia a crederci. E poi Tatum mette due triple di fila, ristabilendo un po’ di cuscinetto per Boston: 48-41, timeout Indiana.
Stevens mette dentro Irving, con Rozier, Tatum, Baynes e Brown. I Celtics patiscono molto in difesa ed infatti subito dopo Stevens corregge, fuori Rozier, dentro Smart. Hayward c’è da dire sta tornando lentamente il giocatore di un tempo. Una piccola dimostrazione è la palla rubata in difesa e il contropiede solitario e dunk per finire. Solamente un paio di mesi fa era impensabile per Hayward questo tipo di giocate esplosive. I Pacers certamente non hanno brillato in questa prima metà della partita, ma sono riusciti a segnare 60 punti a questa difesa colabrodo dei Celtics. Il primo tempo si conclude 63-60 per i Celtics. Boston in attacco ha messo il 51% dei tiri dal campo (25/49), 9 su 17 dai tre punti, 18 assist, 26 rimbalzi, 3 palle rubate e 8 palle perse. Indiana 48% dal campo (21/44) e 7 su 12 dai 3 punti, 14 assist, 19 rimbalzi, 5 palle rubate e 6 palle perse.

Terzo Quarto

I Celtics rientrano col quintetto di partenza, stessa cosa per i Pacers: Collison. Un inizio di secondo tempo favorevole alla squadra di casa: dopo 5:30, 78-71 Celtics, timeout Indiana. Stesso copione del primo tempo: Horford è il primo ad uscire, Morris dentro al suo posto. E come nel primo tempo, subito a seguire Hayward dentro per Tatum.
Entrambe le squadre non sembrano voler rompersi la schiena in fase difensiva: canestri facili per tutti oggi. In questo botta e risposta, i Pacers azzeccano qualche tripla, mentre i Celtics continuano a perdere palla in attacco concedendo punti facili in contropiede. A 3 minuti dalla fine del quarto, Indiana si ritrova avanti di un punto 85-84. I Celtics rientrano con Horford, Irving, Hayward, Brown e Baynes. Poco dopo Rozier dentro per Smart. I Celtics vanno “big”, Stevens sembra molto preoccupato per la stazza di Turner – e giustamente direi. Finora Turner ha 15 punti e 6 rimbalzi, i Celtics non sembrano riuscire a fermarlo se non facendo fallo. Il quarto si conclude con i Pacers avanti di 2 punti, 91-89.

Quarto Quarto

I Celtics rientrano con Brown, Rozier, Morris, Hayward e Horford. Indiana con Joseph, Sabonis, Evans, McDermott e Leaf. Rozier di nuovo una prestazione da dimenticare. Finora un punto e 4 assist e tanti errori sia in fase di attacco – turn overs – che in fase difensiva, dove anche per la sua statura può fare ben poco. Horford decisamente migliore giocatore in campo, continua a dettare i tempi in attacco e a segnare con le spalle al canestro. Si permette anche un paio di sfuriate contro l’arbitro, che sbaglia per due volte assegnando palla ad Indiana quando nel replay risultava evidente l’ultimo tocco da parte di uno dei Pacers: da grande professionista – anche nei momenti in cui le emozioni si fanno sentire – Horford rimane sempre nei limiti, mai sfociando nel fallo tecnico.
E poi Rozier – una serata assolutamente da dimenticare – riesce in fase di rimbalzo difensivo a metterla nel proprio canestro, riportando i Pacers avanti di un punto, 99-98. Auto-canestro?
A 6:30 dalla fine, il punteggio è di 100-99 Celtics. Dopo un timeout dei Pacers, i Celtics si ripresentano con: Kyrie, Tatum, Baynes, Brown e Smart. E’ Kyrie time! E infatti, ruba palla in difesa e sull’azione seguente dribbla tutti e la mette “off the glass” come solo lui sa fare. A seguire Brown mette una tripla e di nuovo timeout Indiana: 105-99 Celtics. I Celtics rientrano con lo stesso quintetto, Indiana rientra con Collison, Young, Matthews, Turner e Bogdanovic. E’ il turno dei Pacers: 6 punti di fila e di nuovo in parità, 105-105, timeout Stevens a 4 minuti dalla fine. Bogdanovic implacabile, finora con 27 punti per Indiana.
Stesse formazioni in campo, Kyrie raccatta due tiri liberi e riporta i Celtics avanti di due, 107-105. Intanto Stevens butta dentro Horford per Tatum. I Celtics continuano a patire la stazza dei Pacers. A 41 secondi dalla fine – in parità – Young grazia i Celtics e si mangia un layup facile facile e Stevens chiama subito un timeout: 112-112. Dentro Morris, Smart, Kyrie, Horford e Brown. La giocata risulta in una palla persa di Kyrie in fase di dribbling, restituendo palla ad Indiana che chiama il suo ultimo timeout a 27 secondi dalla fine. Dentro Baynes, fuori Morris. I Celtics questa volta difendono bene e riescono a raccogliere il rimbalzo dopo il miss di Indiana, timeout Celtics a 10 secondi dalla fine.

A questo punto Boston cercherà di mettere il buzzer. La palla arriva come da copione a Kyrie che va a canestro. Non è proprio un buzzer beater, ma Kyrie la mette con mezzo secondo rimasto da giocare. La partita finisce con i Celtics vittoriosi 114-112, il Garden finalmente si gode una serata a lieto fine.

Le Statistiche

I Pacers registrano un buon 47% dal campo ed un ottimo 44% dai tre punti (12 su 27), un totale di 41 rimbalzi e 27 assist, 12 palle perse e 9 palle rubate. Boston finisce ad oltre il 51% dal campo, un eccellente 48% “from downtown” (13 su 27), un totale di 43 rimbalzi, 14 – troppe – palle perse e 8 palle rubate.

Per Indiana, spicca su tutti Bogdanovic con 27 punti, un efficient 8 su 13 dal campo, con 4 su 7 “from downtown“. Seguono Young con 18 punti ed un ottimo Myles Turner che riporta un double-double con 15 punti e 11 rimbalzi e 3 su 6 dai tre punti.

Super Aaron Baynes!

Per Boston, il solito Kyrie con 30 punti, 5 assist – pochini per un point guard – e 3 palle rubate. Irving in serata altalenante, 50% dal campo – 11 su 22 – e 3 su 8 dai tre punti. A seguire Horford – miglior giocatore in campo questa sera con 19 punti – 8 su 15 dal campo – 7 rimbalzi e 3 blocchi. Per Jaylen Brown una prestazione veramente efficiente: Brown si conferma in forma e decisamente a suo agio nel nuovo ruolo “off the bench“, riportando 16 punti – 7 su 10 dal campo – in appena 27 minuti di gioco. Praticamente tutti gli addetti ai lavori si domandano come mai Stevens si sia intestardito nel far giocare poco Jaylen Brown, chiaramente uno dei giocatori più in forma da qualche mese a questa parte. Hayward sembra sempre più il giocatore pre-infortunio: questa sera una buona prestazione, con 11 punti – 4 su 7 dal campo – e 6 rimbalzi. Per concludere, Aaron Baynes, con un double-double ed una prestazione da incorniciare con 13 punti e 13 rimbalzi. Per una volta gli addetti al marketing dei Celtics ci hanno azzeccato, tappezzando il Garden con volantini di Baynes raffigurato stile superman.

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Arizona Coyotes: comunque andrà sarà un successo

Tra le più belle realtà del panorama sportivo a stelle e strisce troviamo sicuramente gli Arizona Coyotes.

Nel momento in cui scriviamo la squadra di stanza nella Gila River Arena e allenata al secondo anno da Rick Tocchet si trova nei pressi della zona Wild Card a Ovest, vicina ai più forti Avalanche ma con una partita e mezzo di distanza a pochi giorni dal termine della regular season.

Le speranze dunque sono residue e questo lascia un po’ di amarezza se si analizza il periodo recente, nel quale i Desert Dogs avevano preso il comando di questa posizione e vedevano arrancare gli avversari di Colorado, intrappolati e incartati in una sorta di limbo fatto di sfortuna e sconfitte incredibili.

Sarebbe un peccato anche alla luce delle recenti indiscrezioni da parte del Board NHL riguardo un prossimo ed eventuale aumento di partecipanti ai playoff, con un nuovo format che non estenderebbe la durata della postseason ma consentirebbe una limitazione alle trasferte e costi relativi.

Attenzione però: comunque andrà a finire sarà un successo e parleremo di miracolo sia nel caso in cui si agguanti l’ottavo posto ma anche se si mancherà l’obiettivo. Questo perché ad inizio ottobre nell’arido deserto dalle parti di Glendale si attendeva l’ennesima stagione di transizione, fatta di sconfitte, delusioni e di una immagine da squadra cuscinetto.

Parliamo di un team giovane e simpatico che solamente da poco ha ritirato il primo numero della sua storia, il 19 del mitico Shane Doan, capitano che ha giocato con la stessa franchigia un’intera carriera, partendo dai Jets, poi spostati a Phoenix nel 1996.

A succedergli come leader e ad indossare la C sulla casacca è stato il difensore Oliver Ekman-Larsson: una grande soddisfazione per lui arrivata poco dopo aver rinnovato il contratto per otto campionati ad una remunerazione complessiva di 66M. E’ il quarto captain della storia dei Coyotes dopo Tkachuk, Numminem e lo stesso Doan.

Selezionato come sesta scelta assoluta nel 2009, lo svedese ha iniziato la stagione con un dignitoso palmares di 290 punti e 102 gol in 576 partite. Gratificato da tale investitura il ventisettenne da Karlskrona ha disputato la seconda miglior stagione della sua onorevole carriera e appaia l’ex rookie Keller come top scorer.

La dirigenza, per mano di John Chayka, dopo diverse annate deludenti, aveva dato il via alla ricostruzione basata su giovani talenti che ha forse causato il pessimo start dello scorso campionato, fino ad ingranare, concludere il 2018 con un ottimo 17-10-3 e ripartire ad ottobre con più sicurezza nei propri mezzi.

Il Gm oggi, felice per le bellissime performance, la fluidità sul ghiaccio dei suoi uomini e per essere il direttore generale di una realtà definita in più periodi dell’anno “the hottest team in NHL”, ha già annunciato che a prescindere dalla qualificazione in postseason passerà l’estate a rinnovare i suoi uomini di punta.

Tra i buoni colpi messi a segno non possiamo che partire da Nick Schmaltz, giunto a fine Novembre, che avrebbe rappresentato un rinforzo incredibile per il sempre sterile attacco di Arizona, fino a quando prima di gennaio la sfortuna lo ha estromesso dalla scena per infortunio lower body. Per lui 14 punti in 17 incontri. Le due former first round pick Brendan Perlini e Dylan Strome hanno rappresentato la giusta contropartita tecnica per Chicago dando ad entrambe le franchigie lo stesso vantaggio nello scambio.

Ai Coyotes serviva infatti una certezza, un profilo adatto ad inserirsi subito nell’asset da power play come ala destra nella prima linea insieme ai sinistri Keller, Galchenyuk, Chychrun e il capitano. Basti pensare che i 21 gol e 31 assist del 2017/18 (il suo secondo anno) sarebbero stati da queste parti il terzo best score. Ai Blackhawks serviva approfondire le linee prima troppo monodimensionali e soggette soltanto all’estro di Kane e Toews.

Da sempre il tallone d’Achille per i Coyotes, l’offensive zone statisticamente parlando non ha subìto particolari migliorie nonostante gli innesti di Galchenyuk, che scambiato con Domi da Montreal sta comunque rispettando le attese e di Michael Grabner (27 gol nelle ultime due stagioni). Inoltre le grandi aspettative sul rookie Nick Merley non sono andate a buon fine.

Il “primato” di peggior attacco della Western Conference e penultimo dell’intera lega è stato “migliorato” grazie a Stars, Kings e Ducks! Le linee comunque sono fluide, veloci e abili nel recupero disco con Hinostroza, Richardson e Panik in top line a cavarsela dignitosamente.

Certo che la sfortuna in questo reparto ha fatto la sua parte visto che oltre a Schmaltz si è abbattuta anche su altri importanti elementi a roster come Derek Stepan, Christian Dvorak (out per problemi pettorali con solo 17 start) e lo stesso Grabner (Dicembre). Pure la retroguardia è stata bersagliata dal malocchio con Jason Demers fuori a Novembre e soprattutto il goalie Antti Raanta, che grazie ad un sv% di .930 e 2.24 gol subiti per game aveva ottenuto il rinnovo per 3 anni.

Questo settore però si è rivelato il fiore all’occhiello di questo campionato, il motivo per cui Arizona se la sta giocando fino alla fine. Oltre all’accordo con Ekman-Larsson, importante pure l’intesa con Kevin Connauton, che nella rotazione difensiva affianca Goligoski, Hjalmarsson (biennale per lui), lo stesso Devers e spesso il 20enne Jacob Chychrun, ottimo con 20 punti in 52 match dopo l’infortunio al ginocchio. Quinto posto per gol subiti, decimo per tiri contro, secondo per reti in inferiorità numerica e primi nelle percentuali di penalty killing: eccezionale!

Tra i segreti c’è soprattutto quello di aver aggirato “la luna nera” della pesante assenza del portiere titolare con la straordinaria stagione di Darcy Kuemper, giunto come solido backup in un gruppo che in questo ruolo è arrivato a schierare in passato ben cinque giocatori.

Ebbene iniziamo col dire che l’ex Kings contro gli Wild ha ottenuto il quinto shutout ed è riuscito a rimanere imbattuto tra le mura amiche per 120 minuti. Da quando il ginocchio di Raanta ha fatto crack (27 Novembre) il suo bottino personale è stato di 20-11-3, 2.40 goals allowed e .924 percentuale di salvataggi; inoltre tra i goaltender con più di 50 partenze è secondo nelle classifiche di categoria dietro a Vasilevskiy.

Coach Tocchet si è rammaricato che il suo MVP annuale abbia sempre e solo fatto la riserva in carriera e una delle poche opportunità per mettere in mostra la sua forza spaventosa sia stata frutto della casualità e dell’incidente di un compagno.

Ecco, ci piace concludere con questa bellissima frase il nostro articolo, che dimostra come Darcy e i Coyotes siano la cenerentola di tutti gli sport americani e che quasi per caso rappresentino oggi una realtà apprezzata, stimata ma anche ormai temuta da tutti.